di Giacomo Buoncompagni *
Gli accoltellamenti a Londra sul London Brigde, i kamikaze a Manchester durante un concerto e l’attacco di questa notte nelle due moschee di Christchurch (Nuova Zelanda) che si struttura come azione criminale auto-celebrativa in grado di riprodurre le logiche della gamification, attraverso l’utilizzo di una telecamera GoPro che riprende in diretta l’attacco, servendosi di armi con incisi i “padri” dell’odio e del terrorismo contemporaneo (compreso il nome di Luca Traini, in riferimento ai fatti violenti di Macerata), sono solo alcuni dei tanti esempi che potrebbero essere citati e che, in questi ultimi anni, evidenziano lo stretto legame tra insicurezza sociale e terrorismo globale.
Il terrore è una specie di metastasi della guerra che può espandersi senza limiti di tempo e spazio, separando la guerra dal concetto di nazione e rendendo plausibile l’idea che ognuno di noi possa essere un soldato “dormiente” che aspetta di colpire al cuore una comunità. Secondo l’antropologo e sociologo Arjun Appadurai, docente di Scienze Sociali alla New York University, il terrorismo opera proprio attraverso lo strumento dell’incertezza che si manifesta in forme differenti. Il primo aspetto riguarda l’identità del terrorista. Se l’autore della violenza non viene catturato o si suicida, non sappiamo chi sia o quale fosse il suo reale obiettivo. Ciò spaventa l’intera comunità e mette sottopressione gli stessi investigatori, spesso non pronti a intervenire. Il secondo aspetto che alimenta terrore e insicurezza è che lo stesso fatto possa ancora accadere, che la violenza non sia terminata e che il numero di vittime possa continuare a salire.
Terzo aspetto, secondo lo studioso, riguarda il problema di quali siano veramente i confini rispettati dai terroristi. Di solito infatti, si tende a offuscare la distinzione tra spazio civile e militare, rendendo cosi incerti quegli stessi confini che per noi dovrebbero delimitare la sovranità della società civile. Il terrore, soprattutto quello organizzato secondo reti cellulari, sconvolge le strutture dello Stato e oscura la distinzione tra nemici interni ed esterni. I terroristi, di cui quotidianamente sentiamo parlare sui media, sono fonte di un duplice orrore. Sono un male esterno a noi, ma allo stesso tempo sembrano essere gli epigoni di un malessere più profondo che cresce nella quotidianità. Tutto ciò costringe a un continuo confronto con noi stessi, con le Istituzioni. Di conseguenza emerge un sentimento di malessere e insicurezza sociale difficilmente esorcizzabile. L’obiettivo dei terroristi è raggiungere il massimo del media coverage, catalizzando l’attenzione di un audience fruitrice di violenza diretta, indiretta o minacciata e pertanto eterogenea. Può infatti essere suddivisa in: vittimizzati (spettatori “colpiti” dall’evento), neutrali (pubblico che si pone in modo critico rispetto all’accaduto) e simpatizzanti (coloro che empaticamente si identificano con gli attentatori). L’efficacia del terrorismo contemporaneo è pertanto insita tanto nella sua dimensione mediatica quanto nella dirompenza emozionale che la violenza dell’evento terroristico stesso genera. Un quarto aspetto, forse il più complesso, riguarda le emozioni più o meno raffinate – rabbia, odio, invidia e paura – le quali sono “vicine o lontane dall’esperienza”, citando l’antropologo Clifford Geertz. Per alcuni, vittime di bombardamento ad esempio, tali emozioni sono esperienze dirette di sofferenza sociale. Per altri, una vittoria dell’immagine e del messaggio, dei mass media e della propaganda. L’unico modo per fare i conti con una violenza che oscilla tra realtà e percezione, ma che oggi appartiene all’uomo contemporaneo, è “rifiutarne l’istanza essenzializzante e purificatrice” sia in quanto uomini portatori di identità, sia in quanto studiosi (e ricercatori) dell’identità. Il rischio peggiore è che dalle varie forme di incertezza nasca poi una violenza in grado di costituire potenzialmente un’unica certezza: una tecnica brutale da applicare a “loro”, al diverso, allo straniero, ma che allo stesso modo riguarda anche “noi”. E, nell’epoca della globalizzazione, questa ipotesi può rivelarsi particolarmente significativa.
* Dottorando di ricerca in Sociologia, università di Macerata, presidente Aiart MC e componente di Red
Ragazzi qui sono morte 50 persone. 50 persone che stavano pregando . 50 esseri umani come lo siamo tutti . Io sono di destra clandestini spacciatori scafisti onlus mafia ..tutti da bloccare e da rispedire da dove sono venuti ma...chi ha commesso questa strage e condivide non ha diritto di vivere in questa società.
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Spero non ci siano commenti demenziali anche per questa vicenda.
io invece avrei gradito che fossero disattivati i commenti
E’ la guerra la metastasi del terrore, non il contrario. Basti pensare all’attentato di Serajevo, che fu il gesto omicida del 1914 compiuto dal giovane attentatore serbo-bosniaco Gavrilo Princip contro l’arciduca Francesco Ferdinando.
L’assurdità e la gravità del gesto non si discutono. Invitano a riflessioni più profonde : l’odio genera odio, il male genera il male.
Temo purtroppo che, gesti come questo, non rimaranno isolati, se per prime, le comunità stesse non segnalino tempestivamente individui radicali ed estremisti e le autorità agiscano tempestivamente contro gli stessi.
Molinelli, quoto al 100%. Non si combatte il male facendo il male, ma, ove possibile, spiegando a chi fa il male che lo sta facendo e che non deve farlo.