di Giancarlo Liuti
Un disegno di legge il cui primo firmatario è il deputato marchigiano Emanuele Lodolini del Pd seguito da una ventina di parlamentari pure del Pd renderebbe obbligatoria, se diventasse legge, l’abolizione dei comuni italiani con meno di cinquemila abitanti. Il che, nel Maceratese, riguarderebbe ben 40 comuni su 57, quasi tutti situati nelle zone di alta collina o montane. Cosa diventerebbero questi centri minori? Forse non perderebbero il nome ma – ripeto forse – si trasformerebbero in frazioni del comune con oltre cinquemila abitanti che gli sta più vicino, come Villa Potenza, Sforzacosta e Piediripa per Macerata o Civitanova Alta, Fontespina e Santa Maria Apparente per Civitanova. Ma basta dare un’occhiata alla cartina pubblicata da questo giornale per rendersi conto dello squilibrio territoriale esistente fra la zona medio-bassa (ben dodici comuni al di sopra dei cinquemila abitanti e solo quattro al di sotto) e la zona medio-alta (solo cinque i comuni capofila e ben ventisei quelli destinati a scomparire).
Qual è lo scopo di una simile rivoluzione? Ridurre l’elevata frammentarietà dei comuni per favorire dimensioni più adatte a migliorare la qualità e l’efficacia dei servizi offerti ai cittadini. Ottimo! Non si fa cenno, nel testo, alla cosiddetta “spending review”, ossia alla necessità – reale, intendiamoci – di ridurre a tutti i livelli il costo della pubblica amministrazione. A tutti i livelli? Mica tanto, mancando iniziative ugualmente imperiose su altre entità provinciali e comunali la cui utilità è utile soprattutto ai loro presidenti, vicepresidenti e consiglieri. Ben altro, dunque, ci sarebbe da fare. Ma qui rischio di cadere nel deplorevole e qualunquistico “benaltrismo” per cui quando si fa una cosa sarebbe meglio farne una diversa e così via, col risultato che si finisce per non fare nulla. D’accordo. Ma stavolta, a mio avviso, l’onorevole Lodolini, il cui cognome richiama l’allodola, l’uccello annunciatore del mattino, ha annunciato il mattino troppo precipitosamente, quando ancora era notte e la gente, ignara di tutto, stava ancora a dormire.
Con ciò non intendo dire che la disorganicità e il costo dei piccoli o piccolissimi comuni non renda necessario che ci si rifletta e si prendano provvedimenti. Ma per quanto concerne la provincia maceratese questa importante iniziativa parlamentare non è stata preceduta da convegni e dibattiti capaci di far conoscere alla pubblica opinione di che cosa si tratta, magari con preventive assemblee da tenersi in presenza di tutti i sindaci interessati. Invece niente. La notizia è improvvisamente e laconicamente comparsa giorni fa sulla stampa e ai cittadini del nostro territorio – più di 320.000 anime – non è rimasto che prenderne atto. Un modo di procedere, questo, molto sbrigativo e molto “renziano”, forse per evitare la logorante e infinita lungaggine dei pro e dei contro. Un modo, però, un tantino autoritario, che manda un odore un po’ meno affascinante di quello che dovrebbe effondersi dalla parola “democrazia”.
Nessun intento polemico, da parte mia, nei confronti di Emanuele Lodolini, cui va anzi il merito di aver “fatto” qualcosa in un’Italia dove non di rado la politica si limita agli annunci del “fare” ma poi non “fa”. Le mie critiche, insomma, si riferiscono esclusivamente alla mancanza di una diffusa, tempestiva e prioritaria comunicazione per così dire “dialogica” o “dialettica”, un difetto che oggi, nell’universo dell’immediata informazione in rete, rischia di esser più grave di quanto non fosse ieri, quando alla politica si concedeva la riservatezza delle segrete stanze. Nient’altro.
Quanti sono i comuni italiani? Più o meno ottomila – il numero oscilla a causa di modeste fusioni o separazioni – il settanta per cento dei quali (circa seimila) con abitanti al di sotto della soglia fissata da questo disegno di legge. E qual è, oggi, il loro costo per le finanze statali? Difficile dirlo. Qualcuno azzarda una cifra: 400 milioni l’anno. Tale “spending review”, quindi, comporterebbe un risparmio di 400 milioni. Mica poco – si dirà – con l’aria che tira! Invece è poco, giacché – ed ecco rispuntare il mio “benaltrismo” – si potrebbero avere risultati enormemente migliori se, com’ è opinione generale, si affrontassero più decisamente altri settori di spesa nazionale, regionale, provinciale e comunale. Ma basta. Passo quindi a riflettere sulla situazione che con l’eventuale leggesi prospetterebbe, a causa del disegno di legge “Lodolini”, per la realtà del nostro alto e medio entroterra.
Anche a causa dello spopolamento verificatosi negli anni sessanta del Novecento verso le più produttive zone litoranee, tutti i piccoli comuni dei circondari delle città di Tolentino (circa 20.000 abitanti), San Severino (circa 13.000), Matelica (circa 10.000), Cingoli (circa 10.000) e Camerino (circa 7.000) son venuti perdendo le già poche anime che avevano, per cui, se ho ben capito, essi diverrebbero “frazioni” dei suddetti cinque “capoluoghi”, che – attenzione! – dovrebbero assumersi l’onere di occuparsi non solo dei loro problemi economici, sociali, viari e urbanistici ma anche di quelli delle nuove frazioni che gli sarebbero appioppate. Domanda: sono d’accordo i sindaci di Camerino, Matelica, Cingoli, San Severino e Tolentino? La risposta non la si conosce perché non risulta che quella domanda gli sia stata fatta.
Da un punto di vista puramente quantitativo il problema, forse, non si porrebbe per Cingoli con l’arrivo di Apiro (2.300 abitanti) e Poggio San Vicino (appena 300). Né, forse, per Matelica con l’arrivo di Esanatoglia (2.000 abitanti) e Gagliole (600). E nemmeno, forse, per Sanseverino e Tolentino con l’arrivo – forse da spartirsi a metà – di Sarnano (3.500 abitanti), Sanginesio (3.500), Caldarola (2.000), Belforte del Chienti (2.000), Serrapetrona (1.000), Camporotondo (600) e Cessapalombo (500) più qualche altro.
Il problema, semmai, riguarderebbe Camerino, dove potrebbero giungere, in forma di frazioni, ben dodici comuni – in ordine alfabetico Acquacanina, Bolognola, Castelsantangelo sul Nera,Fiastra, Montecavallo, Muccia, Pievetorina, Sefro, Serravalle di Chienti, Valfornace, Ussita e Visso – per un totale di quasi 10.000 abitanti coi loro problemi – ripeto – economici, sociali, viari e urbanistici che si sommerebbero a quelli propri di Camerino. Premetto che questi confini e questi calcoli li ho tracciati e li ho fatti un po’ alla “carlona”. Però non sono tanto lontani dal vero. Cosa pensa, dunque, Camerino di ciò che potrebbe capitargli? Sarebbe interessante conoscerlo. Ma l’onorevole Lodolini, a quanto pare, non gliel’ha ancora spiegato.
UNITI – i sindaci di Pievebovigliana e Fiordimonte Sandro Luciani e Massimo Citracca oggi hanno annunciato la fusione
Da porre sugli scudi, ora, l’alto senso civico – niente campanilismo – di alcuni sindaci e sto pensando a quelli di Visso e Ussita, che si muovono verso l’unificazione, ma soprattutto a quelli di Pievebovigliana e Fiordimonte, che la fusione l’hanno già decisa e hanno fondato un comune con un nuovo nome: Valfornace (leggi l’articolo) . Iniziative coraggiose e però marginali rispetto alla complessità della questione dell’alta e media provincia. Più risolutiva, semmai, sarebbe la difficilissima e poco probabile fusione fra Sanginesio e Sarnano con la nascita di un nuovo comune (scherzo: Sarnesio o Sangiano?) che sfiorerebbe i settemila abitanti e assumerebbe il ruolo di capofila per buona parte dei piccoli centri montani.
E adesso, molto di fretta, un po’ di storia. Quasi tutti i centri abitati – anche i piccoli – del medio-alto territorio maceratese si autonominarono “comuni” all’interno di quel vasto fenomeno di superamento del feudalesimo che a partire dal Millecento va sotto il nome di “Età dei Comuni”, un fenomeno che, facendo emergere un autonomo ceto “borghese” proprietario di terre e attivo nel commercio, durò tre secoli, fino al prevalere delle Signorie – i Varano a Camerino, gli Smeducci a San Severino, i Chiavelli a Fabriano – e dello Stato della Chiesa. Anche Acquacanina (oggi 120 abitanti, pressappoco come il condominio di una palazzina!) fu un comune. E anche Montecavallo (oggi 150 abitanti). E per secoli s’è detto che Bolognola (oggi 160 abitanti) sia stata fondata nel Trecento dalle famiglie Pepoli, Malvezzi e Bentivoglio fuggite da Bologna per salvarsi dal conflitto fra guelfi e ghibellini. Curioso, no? E infine, arrivando a un’epoca recente, Cessapalombo è stato decorato al valor militare nella lotta di liberazione per l’eccidio, ad opera dei nazifascisti nella contrada di Montalto, di ventisette giovani partigiani. Quanto contano, oggi, queste cose? Quasi nulla, specie per chi si propone di riorganizzare o ammodernare l’Italia. Conta di più – e forse è giusto così – lo “scandalo” amministrativo di Acquacanina e del suo comune di appena 120 persone.
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Macroregioni, macrocomuni, microcervelli in macroteste, microuomini in macrocorpi ingrassati da macrostipendi, ministipendi per macrolavoratori, micromobilità per macrodisoccupati ……microrenzi microboschi microlorenzin microceriscioli …… micropolitici per macromalgoverno….. macroinutilità in microdirigenti……con micro e macro si può dare un bello spaccato della nostra Italia.
Sara’ l’inizio di una guerra fra comuni ???
Altro che problema, si stenta a credere che qualcuno possa freddamente programmare una così efferata strage di gloriose autonomie democratiche comunali, ma se essa sarà veramente perpetrata si dovrà poi istituire un giorno della memoria rispetto al quale gli altri diventeranno tutti di serie b.
Quindi, il risparmio sarebbe di ben 400 milioni?
Quelli bruciati per l’Air Force One di Renzi?
Ottomila comuni in Italia sarebbero troppi? In media, un comune italiano ha settemilacinquecento abitanti. La Francia, che ha la nostra stessa popolazione, ha trentottomila comuni, con una popolazione media di 1600 abitanti; la Svizzera ne ha 2324, con una popolazione media di circa tremila abitanti. La concentrazione dei comuni, con consigli comunali fortemente ridotti nel numero dei loro membri, ed eletti con sistemi ipermaggioritari, significa, soprattutto, concentrazione del potere in poche mani e minor controllo democratico.
Questo quanto ci costerà?
Penso che il modo migliore per garantire la scomparsa di un piccolo centro, che, come giustamente ricorda Liuti, ha una storia dietro di sé, sia quello di precipitarsi a fondersi con un comune più grande.