La pianeggiante via Cioci, a Macerata, invita alle passeggiate e anch’io, l’altra sera tardi, ne stavo facendo una prima di andare a dormire quando mi sono imbattuto in uno strano signore vestito all’antica che sedeva in una panchina. La strada era deserta, c’eravamo soltanto noi due. Così mi sono seduto accanto a lui e ho attaccato discorso.
“Riposino?”
“Macché riposino! Ho mangiato troppo e mi gira la testa”.
“A sentirla parlare la si direbbe romagnolo”.
“Infatti. Vengo da Forlimpopoli, dove nacqui nel 1820”.
“Nel 1820? Quindi ha 195 anni! Complimenti, li porta splendidamente!”
“Ce li avrei se non fossi morto nel 1911”.
“Mi faccia capire …”
“Semplice, sono un fantasma. E lasci che mi presenti: cavalier Pellegrino Artusi, di professione gastronomo”.
“Il maestro che con ‘La scienza della cucina o l’arte di mangiar bene’ insegnò agli italiani le delizie della tavola imbandita?”
“Sì, proprio io. Questo mio libro contiene 790 ricette ed è stato il più grande successo editoriale di tutto il Novecento, milioni di copie, e qualcuno lo compra pure adesso”.
“Oggi di libri sulla cucina ce n’è una valanga e stanno ai primi posti nelle classifiche. La cucina, ormai, è diventata una moda”.
“Ma quel che c’è scritto vale poco, roba da dilettanti. Conta solo la fama televisiva dell’autore. Una colossale presa in giro”.
“Come mai qui, cavalier Artusi?”
“Dovunque, a Bologna, a Firenze, a Milano, i sapori non sono più quelli di una volta. E siccome il Maceratese si vanta delle sue eccellenze nella gastronomia tanto da farne oggetto di richiamo turistico, son venuto per verificare se questo risponde a verità. Due settimane di assaggi, nei ristoranti, nelle locande, nelle case private. E le dico subito che me ne ripartirò delusissimo. Da voi, caro signore, si mangia come dappertutto. Cioè male”.
“Colpa dei cuochi?”
“Solo in parte. Loro si arrangiano con le salse, le invenzioni, la fantasia, i nomi strani. Ma purtroppo debbono vedersela con la cattiva qualità delle materie prime. Troppa chimica nei campi e negli allevamenti, estrogeni, strani mangimi, roba importata da chissà dove …”
“Non esageri, cavaliere. I locali sono pieni, la gente è contenta, per una cena di pesce fa chilometri e chilometri …”
“Pesce? Per carità non mi parli di pesce. Allevato, surgelato, congelato. Provi a ordinare una frittura di bianchetti dell’Adriatico. Sa da dove vengono? Talvolta dalla Groenlandia, sanno di Polo Nord”.
“Quali piatti maceratesi la incuriosivano di più?”
“ I vincisgrassi, il potacchio di pollo o di coniglio, la porchetta, i piccioni ripieni, le tagliatelle al ragù, l’agnello scottadito, il brodetto di Porto Recanati, la frittata di cipolle …”
“ Non le sono piaciuti?”
“Non si fanno quasi più e se qualcuno te li propone t’accorgi che non sono quelli veri. Ecco il perché della mia delusione”.
“Non si salva nulla? La pasticcera Romina Santarelli di Matelica fa straordinari dolcetti di zucchero ed è stata invitata all’Expo per realizzare con altre colleghe una torta di 120 metri quadrati da presentare al mondo. Non è motivo di orgoglio?”
“L’ho conosciuta, questa Romina. Bravissima, però un’eccezione. E poi si salva un’altra cosa: il vino. Eccellente è, per i bianchi, il Verdicchio di Matelica ed eccellenti sono, per i rossi, la Vernaccia di Serrapetrona e alcuni Piceni”.
“Lo vede?”
“Ma questo dipende dal fatto che gli enologi lavorano con la sapiente passione degli uomini di scienza mentre i produttori di carne, ortaggi e uova pensano solo alle convenienze economiche, alla mercificazione, al dio denaro”.
“Torniamo alle carni, torniamo alle uova”.
“Ha notato che dovunque, non solo da voi, il tuorlo è impallidito e da rosso è diventato arancione? E vuol sapere perché? Perché ogni uovo è fatto da una gallina che non si sa cos’ha mangiato, e questa gallina deriva a sua volta dall’uovo di una gallina che non si sa cos’ha mangiato e così via, all’infinito. Ecco perché, dai e dai, il tuorlo impallidisce. E pure il sapore. Provi a farsi un semplice uovo al tegamino. Si renderà conto che non è lo stesso che facevano sua nonna e sua madre”.
“Chi è nato prima, l’uovo o la gallina? Ecco un irrisolvibile dilemma filosofico …”
“La filosofia non c’entra, signore. Qui stiamo parlando di cibo”.
“Lei, cavaliere, è un po’ fissato, cerca sempre il pelo nell’uovo”.
“Non lo dica. Io sono uno che nella vita e anche nel mangiare ha sempre amato il bello e il buono ovunque si trovino e mi ripugna di vedere straziata la grazia di Dio”.
“Veniamo alle tagliatelle. Cos’è che non va?”
“Anzitutto la sfoglia. La farina e le uova non sono più come dovrebbero essere. Idem per il ragù, che ha bisogno di ottima carne e ottimi pomodori. Vattelappesca! Pure gli agriturismi, che dovrebbero servirsi di roba coltivata e allevata da loro, usano barattoli da supermercato”.
“Per il ragù ci vuole tempo, ci vuole pazienza. E la chimica, qui, c’entra poco. Adesso c’è fretta, anche nelle case bisogna sbrigarsi e figuriamoci nei ristoranti …”
“La fretta, d’accordo. Ecco un’altra cosa che nuoce alla qualità del mangiare. Come dice il proverbio, la gatta frettolosa fa gattini ciechi. E non dimentichi la cosiddetta emancipazione femminile che tante mani ha sottratto ai fornelli …”
“Ahi, cavalier Artusi! Ora mi fa il maschilista?”
“Ma che maschilista! Mi limito a prendere atto della realtà”.
“E la carne, torniamo alla carne. L’agnello, per esempio”.
“Senta questa, che è proprio carina. Nella vostra montagna c’è un paesino famoso per la genuinità degli agnelli, tanto che in prossimità della Pasqua ci si recano parecchi romani facendo quasi duecento chilometri per non privarsi di quelle prelibatezze. E gli agnelli li trovano, sì, ma vengono anch’essi, all’ingrosso, dai grandi ovili paraindustriali della campagna di Roma!”
“E’ una malignità, cavaliere, messa in giro per ragioni di concorrenza”.
“Può darsi, ma verosimile. Qualcosa del genere accade per qualsiasi tipo di carne. S’è accorto, lei, che le salsicce son diventate dolciastre? E allora, come per le galline, la domanda è la stessa: che gli danno, da mangiare, ai maiali?”
“Sta di fatto che i maceratesi non si lamentano. Possibile che siano così sciocchi?”
“Non sciocchi, semmai smemorati. I sapori di una volta non se li ricorda quasi nessuno. E i giovani non li hanno mai provati. Così, come in tante altre cose, trionfa il conformismo”.
“Cioè?”
“Farsi una serata allegra fra amici o con la ragazza in qualche ristorantino, barzellette, pettegolezzi, risate o tenerezze d’amore senza badare a ciò che si mangia. Come in discoteca! Ed è così dappertutto, pure nella mia Forlimpopoli. Piantatela, allora, di vantarvi per le eccellenze della vostra cucina. C’erano, forse. Adesso non più. Anche voi, adesso, vi appiattite in una totale uniformità delle coscienze, dei comportamenti e pure dei palati!”
“Non sarà, cavalier Artusi, che lei si definisce uno scienziato ma è stato e rimane solo un fanatico ghiottone?”
“Questa è una perfidia che m’ha sempre perseguitato. Ma è falsa. Gliel’ho già detto e glielo ripeto: io amo il bello e il buono ovunque si trovino e mi ripugna di vedere straziata la grazia di Dio”.
“Nel suo libro c’è pure uno speciale menù per il pranzo di Pasqua. Eccolo: antipasto con crostini di capperi, poi pappardelle con la lepre, poi pollastra lessa con asparagi, poi vitello in guazzetto con zucchini, poi, come intermezzo, uno sformato di fagiolini, poi arrosto di quaglie con insalata maionese, poi zuppa inglese e macedonia di frutta. La grazia di Dio forse no, ma ne verrà straziata la digestione …”
“Via, la Pasqua è una festa e nelle feste è lecito ‘insanire’, come affermavano i nostri progenitori”.
“Sa che le dico? Un po’ di ragione lei ce l’ha, non lo nego. Ma qualche buon posticino c’è ancora, basta cercarlo. Lei, invece, è arrivato con la testa piena di pregiudizi ideologici, quelli che tanto male fanno pure alla politica. Non distingue fra capre e cavoli, fa di tutta l’erba un fascio, esaspera, sproloquia, si contraddice. Mi perdoni ma alla fine del nostro discorso m’è venuta la voglia di chiamarla cavalier Astrusi. Si offende?”
Ma lui non c’era più. Svanito in uno sbuffo di vapore che sapeva di ciauscolo.
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Càpita a Montefano, o a li confini,
Treia vojjo dì o Appignano
e nnun te dubbità: sei ’n bone mano,
ch’è ttutta ’na fajola d’assassini.
Te coceno du’ polli bbufolini:
te cacceno un vinetto de Pissciano
battezzato coll’acqua de pantano:
te danno un letto morbido de spini.
Te metteno la notte in compagnia
purce, zampane, cimisce e ppidocchi,
che tte fanno cantà Vviva Maria!
E cquanno er zonno t’ha sserrato l’occhi
te viengheno a cchiamà per annà vvia.
E ttutto questo pe ppochi bbaiocchi.
il Cavaliere Artusi ha ragione da vendere; i sapori di oggi non sono più quelli di un tempo; la genuinità del cibo si è persa negli anni; l’ industrializzazione della catena alimentare ha livellato in modo assolutamente negativo quelle che un tempo erano le prelibatezze dell’arte alimentare.
Il sedersi a tavola, era come accedere ad un rito che celebrava il piacere del palato, alla fine del quale, molto spesso, l’euforia generata nei commensali, produceva suoni e rumori….cacofonici.
Un aforisma di origine veneta, veniva ripetuto anche nel nostro dialetto: tromba de culu, sanità de corpu, chi no scoregghia è un’omo mortu.
Come la capisco cavaliere Artusi !
Che rabbia!
Quella che è una grande, assoluta novità per i commentatori (la certificazione obbligatoria), per me è la norma e dunque non respiro aria di nessun cambiamento.
Nemmeno leggendo i tuoi splendidi editoriali, caro Giancarlo. Che, infatti, sono sempre una spanna sopra.
Grazie.