di Jonata Sabbioni
Luigi Pirandello, nel notissimo saggio del 1908 “L’umorismo”, rivolgendosi idealmente ad Alessandro D’Ancona (che aveva a sua volta indagato il tema in uno studio su Cecco Angiolieri), afferma: “Dopo la parola romanticismo, la parola più abusata e sbagliata in Italia è quella di umorismo. Se fossero realmente umoristi gli scrittori, i libri, i giornali battezzati con questo nome […] non si potrebbe uscir di casa senza incontrare per strada due o tre Cervantes e una mezza dozzina di Dickens…” Infatti, prosegue Pirandello, “per il gran numero, scrittore umoristico è lo scrittore che fa ridere: il comico, il burlesco, il satirico, il grottesco, il triviale”. La sovrapposizione dei concetti di comico e umorista è conseguenza di una poco accorta esegesi critica della produzione classica e, soprattutto, manierista e nasconde un equivoco fondamentale. Se, infatti, il comico mostra la contraddizione della realtà esperita contraria alla “norma” e ne fa sceneggiatura, ancorché spiazzante, l’umorismo nasce da una riflessione più cauta, più pesata, sulla realtà; una riflessione che può generare una sorta di compassione e da cui può originare il sorriso della comprensione. Per usare ancora il Pirandello, lo scrittore umorista “non si sdegna mai della realtà in contrasto col suo ideale: per compassione transige qua e là e spesso indulge”. La poesia di Luigi Socci, finalmente riunita organicamente nel libro Il rovescio del dolore (Italic Pequod 2013), conosce perfettamente la distinzione tra comico e umorismo e ben interpreta il secondo metodo, quello umorista, come mezzo autentico del “sentimento del contrario” (citando ancora Pirandello). Inoltre, e soprattutto, Socci fornisce una notevole unità di misura per la matura produzione italiana recente, laddove, con una scrittura breve, rapida ed emotiva, accoglie come operazione intima l’astrazione dalle cose e copre lucidamente il distacco dal pensiero alla parola. Il libro si compone di sette sezioni e compendia una lunga attività. Poesie del poeta anconetano (Socci nasce ad Ancona nel 1966 e lì vive) sono riunite nella precedente plaquette Freddo dal palco (d’if, 2009) e nelle importanti antologie VIII Quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2005) e Samiszdat (Castelvecchi, 2005), ma solo adesso, con Il rovescio del dolore, trovano
compimento come percorso complesso e unitario. Socci si autodefinisce “versificatore part-time” e ama interpretare la propria scrittura in performances sceniche, d’impianto teatrale, in cui il coinvolgimento dell’uditorio è parte dell’esperienza emotiva e di costruzione di senso. Memorabile un suo reading in cui chiese alla platea di indossare occhialini per la visione tridimensionale, con una lente rossa e una verde, e di ascoltare una sua poesia in cui la vista era posta ironicamente in discussione come facoltà sicuramente affidabile… Come scrive Massimo Raffaeli nella nota finale al libro, l’autore coltiva “un’idea di poesia ad alta vocazione comunicativa” (è lo stesso Socci a definire così la sua scrittura), dove “lo spiazzamento” è “necessario all’equilibrio percettivo” e “l’ironia sa mettere alla giusta distanza le cose del mondo”. Il paradosso e il rovescio sono temi guida dell’intero libro. Nel bel componimento “Certi rovesci”, ad esempio, presente all’interno della seconda sezione (Cosa c’è da mangiare”), una serie di immagini di ribaltamenti suggestivi guida la narrazione fino alla sorpresa del dittico conclusivo: Rovescio del dolore il suo discuore. / Allegri! Oggi si muore. Presente con frequenza simbolica, il topos della morte (e della vita come dimensione specularmente spirituale) è tratteggiato con coraggio e anche quando il tema diviene il suicidio, inteso come scelta con cui scartare l’idea di un’esistenza soltanto“allungata”, costretta (si legga, ad esempio, la bella poesia “Fine stagione”), la costruzione si fa coinvolgente. In alcuni punti del libro il poeta decide di chiarire alcuni aspetti del suo metodo. Fornisce degli indizi di poetica lucidi e netti, come in “0.5” dove può affermare “se io esco io non vedo” oppure forma l’ambito del proprio ruolo. Nell’ultima atroce e suggestiva poesia “Ultima prima al “Na Dubrovka”, intesa (come scrive lo stesso Socci nelle note a fine testo) come una “lunga didascalia in versi all’immagine della giovane terrorista addormentata-morta in poltronissima” durante un attacco terroristico ceceno ad un teatro moscovita del 2002, in cui morirono almeno 168 persone, gli ultimi quattro versi valgono come una presa di coscienza del poeta-osservatore: Mi confondo nei ruoli. / Mi confondono i ruoli. / Mi credo e mi capisco./ Dico l’ultima poi mi finiscono. Anche il ricordo delle figure, nella convinzione che la poesia possa essere un linguaggio congeniale al richiamo del senso tramandato, sta la composizione delle memorie. Il poeta, inoltre, aderisce ad un assunto definitivo per cui la parola poetica non è bastevole di per sé, né può essere risolutiva per una riabilitazione post-traumatica dell’anima. La poesia, infatti, “non quadra / il cerchio” e “non è / per te né per nessuno”. Tra i riferimenti di Socci si trova sicuramente la mirabile misura del dire di Elio Pagliarani, citato in epigrafe alla quarta sezione (Strada maggiore n.0) ma anche la voce limpida e distorcente di Palazzeschi o, piuttosto, l’elaborazione strutturale di Sanguineti. E il conterraneo Franco Scataglini, a cui Socci dedica la bella poesia “28 agosto 94” (data della morte del maestro anconetano), costituisce un esempio della migliore vocazione ai luoghi profondi, e spesso amari, dell’appartenenza. Il processo poetico, secondo Socci, inevitabilmente scompone, disordina, discorda la ragione compositrice e perde ogni forma pre-stabilita. Invece si adatta, si sparpaglia, si disarticola, aggrappandosi a figure sonore tanto ricorrenti quanto destrutturate (le rime, anche interne al verso, e le assonanze), utili più come punti di stasi che come elementi significanti. È lo stesso Socci, nella breve annotazione alla fine del testo, a darci una chiara interpretazione della sua ricerca. Laddove descrive la poesia come una sorta di “autoinganno”, una pratica buona a scongiurare, almeno per un istante, l’imperscrutabile, Socci definisce la scomposizione del reale, e la sua osservazione distaccata, come un compito proprio della letteratura. Così, il verso diviene uno strumento simile alla “tenerezza” per sé, all’auto-accettazione essenziale, seppur nella condizione dell’abitante di Pompei che tenta di fronteggiare l’eruzione del Vesuvio “recitandogli uno scioglilingua”. Il poeta, allora, comprende che la rappresentazione della leggerezza, l’ironia diffusa, l’illusione può servire per squarciare con meno dolore il velo della realtà, del presente che declina e del passato che non sostiene. E quando si sorride, nella lettura del libro, non è gesto d’indelicatezza; anzi è complice adesione, rimando, partecipazione. Empatia (termine greco composto da en-, “dentro”, e pathos, “sofferenza o sentimento”). Salvare tutti gli elementi della materia è fondamentale, per Socci. Salvare tutto, tutti gli oggetti e i ricordi, compresi quelli irrinunciabili del dolore e dell’abbandono, talmente dissonanti da risultare, al fine, persino fin troppo coerenti. L’autore pare affermare che con la poesia “stiamo / parlando non di noi” e che soltanto la dimensione multipla e scomposta del verso può costruire una dinamica viva e sociale. La voce è il tramite della parola e il poeta le riconosce un’importanza quasi liberatoria, non certo catartica ma funzionale alla figurazione. “Persa la vista perché non serviva”, infatti, alla voce si può chiedere: “dimmi la verità” e, nonostante essa sia “fuori campo”, è pur sempre “narrante”, ossia rivelante. Potremmo immaginare, con Socci, che tutte le finzioni dell’anima, tutte le creazioni del sentimento, tutte le paure e le illusioni, siano come “smontabili”. Il poeta ci suggerisce di mettere in atto una specie di psicologia meccanica che aiuti a scoprire il congegno di ogni immagine, reale o meno, per vederne il vero funzionamento e, al fine, riderne, data la sua sorprendente semplicità.
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