di Giancarlo Liuti
Le medaglie hanno sempre due facce ed è sbagliato guardarne una sola. Di medaglie, poi, ce ne sono vari tipi, quelle al valore e quelle al disvalore, quelle alla memoria e quelle alla dimenticanza. Ed è sbagliato non accorgersi delle differenze. Ora accade che a Civitanova siano piovuti volantini contro l’inaugurazione (foto) di un grosso emporio gestito da cinesi e che a Macerata il candidato della Lega Nord, sognando le italianissime trattorie ‘giovedì gnocchi e sabato trippa’, auspichi iniziative contro i ristoranti cinesi. Ma, contemporaneamente, accade che si faccia un gran parlare, nei giornali e nelle assemblee elettorali, delle celebrazioni in onore di Padre Matteo Ricci, il gesuita capace, quattro secoli fa, di gettare un ponte di reciproca comprensione fra la civiltà cinese e la civiltà romana e cristiana, ossia, come oggi diciamo, la civiltà occidentale.
Eccole, le due facce della medaglia. Eccoli, i molteplici tipi. Da una parte si lanciano messaggi che, sensibili a certe istintive paure, chiamano alle armi contro invasioni straniere. Dall’altra si inneggia (o meglio: si dovrebbe inneggiare) alla figura di chi, all’opposto, è l’antico ma attualissimo campione della disponibilità – e, si badi bene, dell’interesse – ad aprirsi al mondo facendo tesoro delle diversità con spirito di accoglienza, integrazione, collaborazione fra i popoli. Da una parte c’è dunque l’esaltazione di una identità che (come una volta fra limitrofe realtà municipali e perfino fra rioni di una stessa città) sta tutta compressa dentro gli steccati del sangue, della etnia e delle cosiddette radici territoriali. Dall’altra, invece, si esalta (o meglio: si dovrebbe esaltare) quella identità originaria e basilare che, a prescindere da latitudini, confini e diffidenze viscerali, consiste, unicamente e dovunque, nell’appartenenza al genere umano.
Ma fra queste due facce della medaglia c’è, qui a Macerata, una ulteriore differenza. E sta nella superficialità, nella vaghezza e nel volo ahimè troppo basso con cui la seconda faccia, quella che si richiama a Padre Matteo Ricci, viene rappresentata e proposta al nostro immaginario, al nostro comune sentire. Far capire con espressioni semplici e chiare che quel nostro concittadino seppe cogliere una profonda consonanza di valori etici fra la parola di Gesù, figlio di Dio, e la parola di Confucio, figlio di un uomo? Magari! Far meditare sulla circostanza che l’imperatore cinese non diffuse volantini contro di lui né gli vietò di mangiare con la forchetta al posto delle bacchette, ma si entusiasmò alle sue conoscenze scientifiche e, ammirato, le aggiunse alle proprie? Magari! Sarebbe questo il vero significato delle celebrazioni, perché questa è la vera ragione per cui l’intero pianeta, oggi, le guarda con attenzione. Il futuro dell’umanità, Obama, l’Asia, l’Europa, le migrazioni, le guerre, la piaga della fame, la crisi economica, la qualità della vita. Riflettere, insomma. Mettere in moto le menti e i cuori. Stimolare confronti di idee anche politiche. Farne discendere visioni dell’Italia, delle Marche, di Macerata.
Che succede, invece? Si polemizza sulla lapide di una improbabile casa natale, si disputa sulla percentuale – orribile a dirsi! – di cellule religiose o laiche nel Dna del personaggio, si lamentano ritardi, si allude a eccessi di spesa, si contestano organigrammi, si fa a gara nel promettere statue, quasi ci si chiede se lui preferirebbe, come sindaco, Giorgio Ballesi, Romano Carancini, Anna Menghi, Fabio Pistarelli o Paolo Ranzuglia. E tutto, a certi livelli, sembra indossare la veste dell’evento occasionale e fuggevole, del fiore all’occhiello degli uni contro gli altri, della banderuola di campanile, del pungente ma effimero reality televisivo. Troppo poco, povero Padre Matteo Ricci. Pensavi di cambiare il mondo, rischi di finire al Grande Fratello o all’Isola dei Famosi.
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Provo sempre piacere a leggere le riflessioni di Giancarlo Liuti: sarà perché è della “vecchia guardia”, ma non si limita alla superficie delle notizie, scava in profondità nelle nostre contraddizioni e manifesta sempre quella saggezza che di questi tempi è diventata merce rara.
Temo anch’io che, come spesso succede, passato il “grande evento” e spenti i riflettori, terminato lo sfruttamento mediatico di una grande figura come quella di padre Matteo Ricci, nel profondo della nostra coscienza resterà ben poco dell’insegnamento di questo pioniere del dialogo interculturale e interreligioso. Continueremo ad armarci contro il “diverso” perché abbiamo paura dell’inconsistenza della nostra indentità, culturale e anche religiosa. Proseguiremo ad operare secondo la logica della competizione, senza imparare che siamo sulla stessa barca, e solo se collaboriamo e remiamo insieme ci salveremo dal comune naufragio.
Grazie dott. Liuti per questo momento di riflessione. Sono amareggiato di come un grandissimo uomo, qual’è è stato padre Matteo Ricci, venga vilipeso e trattato alla stregua di una saponetta da barba. L’opera svolta da padre Matteo Ricci in Cina è stata riconosciuto persino sa Mao, il quale gli ha intitolato una piazza a Pechino. E non credo che ci siamo molte piazze intitolate a stranieri in Cina. Caro dott. Liuti, grazie per lo schiaffo morale dato ai maceratesi con questo articolo in cui si evidenzia che trovare la casa natale di padre Matteo Ricci non è importante: la sua casa natale è stata la città di Macerata. Punto. Fino agli anni ’70 quando la Cina cambiava i suo ambasciatori, questi si fermavano a Macerata prima di presentarsi al Presidente della Repubblica Italiana, per omaggiare i luoghi natii di un grande uomo che ha lasciato tracce significative nella loro storia. Forse non è giunto il momento di trovare una giusta collocazione anche nella nostra storia? O parleremo solo di Marco Polo.
Ieri sera ho avuto l’opportunità di accennare direttamente al professor Mignini il mio (penso non solo) desiderio di approfondire l’aspetto della capacità di integrarsi da parte di Matteo Ricci, espressasi con quel suo “essersi fatto cinese” senza mai predere la propria radicata identità. Sarei intenzionata ad approfondire questo carattere, perchè, accanto al mio lavoro sulla traduzione come spezzone fondamentale delle iniziative relative al fenomeno dell'”integrazione”, vorrei condurre delle ricerche “in direzione opposta” a quella corrente; parliamo, cioè, dal punto di vista del Paese ricevente, di come fare perché i migranti vi si integrino (giustissimo: è la realtà con cui ci confrontiamo quotidianamente), ma sono convinta che mettersi nei panni di Matteo Ricci, di colui che migra in un Paese ricevente, studiandone la capacità per farlo, potrebbe fornirci elementi di indispensabile aiuto per l’accoglienza e l’integrazione di cui abbiamo fondamentalmente bisogno (Lega Nord e pochi altri esclusi).