Ex campo di concentramento,
una ricercatrice inglese a Sforzacosta:
«Importante tenere viva la memoria»

MACERATA - Janet Kinrade Dethick è una storica che da anni vive in Italia, cercando di ricostruire la storia dei soldati inglesi che vennero imprigionati fino al 1943: qui furono circa 6mila. Ad accompagnarla nella visita Giovanni Cartechini: «Ci siamo conosciuti via Facebook: speriamo che sia un incontro che porti a ulteriori sviluppi»

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Janet Kinrade Dethick e Giovanni Cartechini nell’incontro di qualche giorno fa

di Marco Pagliariccio

Un luogo della memoria che rischia di scomparire da radar tra disinteresse e immobilismo. Eppure il campo di concentramento di Sforzacosta giace tutt’ora, dopo ottant’anni, in larga parte immutato rispetto al periodo buio nel quale i suoi capannoni arrivarono ad ospitare circa 6mila soldati inglesi, internati dopo essere stati presi prigionieri tra il 1941 e il 1943 nella guerra in Nord Africa. È curioso, ma anche no, che proprio dall’Inghilterra arrivi il maggior interesse per questa struttura, posta nel cuore del quartiere ma che sembra quasi che il quartiere stesso voglia rimuovere dalla sua vista. Nei giorni scorsi, infatti, la ricercatrice britannica Janet Kinrade Dethick è giunta in paese per approfondire i suoi studi sulla struttura, che tanti suoi connazionali vide rinchiusi durante la Seconda Guerra Mondiale.

A farle da Cicerone nella visita del campo è stato Giovanni Cartechini. «La dottoressa Dethick mi ha contattato dopo aver letto un mio post su Facebook del 2022 riguardante sempre il campo di concentramento – racconta l’ex consigliere di circoscrizione, volto noto a tutti a Sforzacosta – da tempo vive in Italia, ma continua a tenere contatti con le famiglie e gli eredi dei soldati che furono imprigionati nel nostro paese tra il 1941 e il 1943 e in particolare, in questo periodo, in quelli della nostra zona: ha visitato, ad esempio, il museo del Parco della Pace di Servigliano. Di documenti storici io in mano non ne ho molti, ma ho cercato di darle una mano attraverso i racconti e le informazioni che ho raccolto nel corso degli anni. Gli ho mostrato tutto il perimetro del campo e si è detta davvero sorpresa perché, a differenza di altri campi, questo, benché si sia trasformato nel corso degli anni, ha tutt’ora una struttura integra, con il muro di cinta, l’arco d’ingresso e i capannoni originari. Sta lavorando anche su un altro fronte: quello delle famiglie italiane che all’epoca ospitarono gli inglesi che fuggivano dai campi. Su questo purtroppo non ho saputo aiutarla, se non per quanto riguarda la mia famiglia, che, nella casa alla Pieve, aveva ospitato alcuni soldati per qualche giorno».

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L’arco d’ingresso dell’ex campo di concentramento (foto: Istituto Storia Marche)

Oggi la struttura è divisa tra due proprietà, entrambe private. Una, quella più interna, pressoché in disuso dopo che negli anni aveva ospitato una fabbrica di scarpe, ma anche negozi e ristoranti. L’altra, quella sul lato nord che si affaccia lungo Borgo Sforzacosta, è invece quella dove trovano posto attività commerciali come la Macelleria del Borgo, il pub Tipsy e altre ancora.

«Ci siamo scambiati le rispettive conoscenze, anche perché io ho alle spalle una storia a specchio: quella di mio padre che venne fatto prigioniero in Africa dall’esercito inglese e deportato proprio in terra britannica, anche se non sono mai riuscito a ricostruire tutto il suo percorso – continua Cartechini – sono anni che cerco di mettere in luce la situazione dell’ex campo di concentramento, perché si corre il rischio serio di perdere completamente la memoria di un periodo cruciale della nostra storia. È stata un bell’incontro, speriamo che possa portare a ulteriori sviluppi in futuro. Ci siamo salutati promettendoci di rimanere in contatto, con l’interesse comune di non dimenticare la storia e le vicende di questo luogo».

Il campo di concentramento di Sforzacosta ha una storia ancora antecedente a quella della Seconda Guerra Mondiale: era nato infatti con scopi agricoli, era un luogo adibito a magazzini per l’uva, il tabacco e altri prodotti. Nel 1940 fu trasformato, come altri capannoni e complessi della zona, in campo per internare principalmente i prigionieri di guerra inglesi. Dopo l’8 settembre 1943, però, si susseguirono mesi convulsi, con prima il liberi tutti e quindi l’arrivo dei tedeschi, che ripresero ad usarlo, tra alterne vicende, fino al giugno 1944, quando l’avanzata del fronte angloamericano costrinse i tedeschi allo sgombero. Come detto, nel Dopoguerra l’area fu acquistata da un privato e così nelle baracche, al posto di guardie e prigionieri, arrivarono gli operai di una fabbrica di scarpe, che rimase attiva fino al 1987. «Purtroppo il fatto che la proprietà è privata impedisce anche al Comune di intervenire in qualche modo per una valorizzazione della struttura – conclude Cartechini – l’importante è mantenere viva l’attenzione su questa situazione».


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