Una delle scene dell’Aida
di Marco Ribechi
Un’Aida in mezzo al deserto racconta di colonialismo e oro nero. Strappa applausi e convince lo spettacolo messo in scena dalla regista Valentina Carrasco per celebrare i 100 anni della lirica maceratese. Un secolo è infatti passato da quella Aida del 1921 che per sempre cambiò le sorti dell’arena cittadina e, allo stesso tempo, sono 150 gli anni dal debutto dell’opera verdiana a Il Cairo, finanziata con 80mila franchi da Isma’il Pascià per celebrare l’inaugurazione del Canale di Suez. Corsi e ricorsi storici il caso ha voluto che, proprio quest’anno, lo stesso Canale ricordasse al mondo la sua importanza strategica, con la nave Ever Green bloccata tra le sue sponde a paralizzare tutto il traffico delle merci provenienti dall’Asia. All’epoca della costruzione, nel 1869, anche Giuseppe Verdi non doveva essere ignaro del cambiamento radicale che stava accedendo proprio in quegli anni, con il mondo trasformato da alcune invenzioni (telegrafo, elettricità) che avrebbero per sempre contratto il tempo e lo spazio, sconvolgendo la storia umana.
Con queste considerazioni preliminari appare chiara quindi la scelta della regista che con il suo allestimento ha voluto celebrare i 150 anni di Aida e quel vento di Belle Époque che, da un lato, spingeva le società europee verso la crescita e l’espansione mentre, dall’altro, segnava senza pietà la fine imminente di un mondo forse più romantico e ovattato. Non a caso il tumulo di Radamès e Aida dove si conclude l’opera sarà scavato proprio tra moderni pozzi petroliferi. È lì che nella modernità si conclude ogni romanticismo. «Considero l’apertura del Canale di Suez come gli albori della globalizzazione – aveva dichiarato Carrasco – rappresenta un mondo che non può più aspettare che le navi facciano il giro dell’Africa per i trasporti. È, insieme ad altre innovazioni, l’inizio della nostra epoca consumista».
La nostra Aida inizia invece tra le dune del deserto, in un paesaggio davvero suggestivo, dominato solamente dalla sabbia. Tre sono i mondi che si incontrano in questo scenario. Il primo ad apparire, con l’ingresso in scena di Radamès (Luciano Ganci), è quello dei conquistatori. Radamés è infatti vestito di tutto punto come un esploratore di fine ‘800 con stivali alti, cappello bombato, binocolo, borraccia e mappa alla mano. Di questo mondo fanno parte tutti i personaggi egiziani ritratti però come colonizzatori europei pronti a sottrarre le ricchezze ai popoli soggiogati. Il secondo mondo è quello dei sacerdoti le cui fila sono comandate dal loro capo, Ramfis (Alessio Cacciamani), vestito di nero, come un beduino o predone del deserto. Egli si muove con agilità sia tra le dune a cui evidentemente appartiene, ma anche come consigliere dei colonizzatori, rappresentando così quei gruppi etnici spesso collaborazionisti delle potenze conquistatrici. Infine c’è il mondo degli etiopi, coloratissimi e sgargianti si staccano dal bianco e nero dei due gruppi precedenti. Selvaggi, bastonati e soggiogati sono la metafora di quel mondo che non vuole europeizzarsi ma che da lì a pochissimo cesserà per sempre di esistere. Amonasro re d’Etiopia e padre di Aida sembra un combattente di una qualche resistenza araba.
Il passaggio epocale, ambientazione di tutta l’opera, è segnato anche dalla trasformazione delle scenografie che lentamente si compongono sul palco. Il deserto selvaggio piano piano si popola di manufatti: dal nulla iniziale nasce un piccolo accampamento che si muta in pozzo di estrazione petrolifera con barili, fiamme, camini e lampadine per terminare in una prigione/lager in cui i due protagonisti, innamorati, vedranno sfiorire la loro esistenza. La globalizzazione si è ormai presa tutto. Il dramma di Aida diventa così quello di ogni paese colonizzato che non può opporsi ai cambiamenti apportati dalla modernità distruttrice di luoghi e paesaggi, persino dei deserti che vengono snaturati dalla loro estetica originaria. È, appunto, l’inizio dell’età moderna. Per questo la sfilata dei vincitori che nel terzo atto mostrano al re i tesori conquistati, si trasforma nella costruzione di un pozzo petrolifero con delle singolari danze celebrative sui barili di oro nero. Infatti quale tesoro più grande l’Occidente ha strappato all’Africa se non le sue più preziose risorse? Gli etiopi selvaggi possono solo ribellarsi ma ormai il passaggio è stato compiuto, la modernità è arrivata in quel deserto che oltre alla sabbia cela anche il prezioso carburante, vero obiettivo dei conquistatori anche della nostra epoca.
Quindi, se l’applauditissima Amneris (Veronica Simeoni) è una donna totalmente all’europea acconciata con un caschetto da primi del ‘900, Aida, al contrario, appare più come una Mamy governante nera in qualche piantagione di cotone degli Stati Uniti, con una verde veste e cerchietto di stoffa a mantenere i capelli fermi durante le faccende casalinghe. Non più etiope ma nemmeno colonizzatrice la sua identità, così come il suo aspetto, è a metà tra i due mondi in contrasto. È la tipica schiava addomesticata dei colonizzatori. Meritano di essere sottolineate di questa Aida anche le scene collettive, solenni e di forte impatto, con moltissimi soggetti (con mascherina) a popolare il palco in quadri davvero statuari e potenti. Su tutte spicca la forza evocativa dell’investitura di Radamés. Il corpo di ballo e le coreografie sono anche degne di speciale menzione. Suggestiva la scena in cui i personaggi emergono, rotolando, dalle polveri del deserto. La parte musicale, impeccabile, ha visto Francesco Lanzillotta a dirigere la Form verso una meritata pioggia di applausi condivisi con l’eccellente coro. I cittadini maceratesi coinvolti sul palco e impegnati nella costruzione materiale della scenografia sono una metafora nella metafora di come l’edificazione dello Sferisterio abbia a sua volta cambiato il volto e l’identità della città. In conclusione tutto convince dell’Aida del centenario, l’unica nota dolente è la necessaria riduzione del numero dei posti a causa del distanziamento Covid, forse sarebbe andata diversamente se fosse stata messa in scena in un campo di calcio.
(foto Tabocchini)
L’Aida 100 anni dopo (Foto) Parterre dorato allo Sferisterio «Da qui una speranza per il futuro»
una versione classica non era preferibile
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Opera colossale, anche a volerla minimizzare è sempre di un impatto scenografico grandioso, penso che ogni regista debba cimentarsi in queste opere dove più di ogni altra rappresentazione porta alla luce le capacità della regia e non solo.
Serata magnifica.