di Stefano Donati *
Il vento di questi giorni fa rotolare le foglie in una piazza deserta. Cumuli di macerie addossate ai fabbricati. Le erbe parietali fanno capolino fra i mattoni. Una persiana cigola lontana.
Sembrerebbe la scenografia di un film di Sergio Leone, invece è la triste e desolante realtà che accompagna la vita dei centri colpiti dal non troppo recente terremoto.
Trovare le ragioni di questa situazione stagnante, ai limiti dell’esasperazione, può essere un esercizio fin troppo facile per scaricare qualche barile. Invece la riflessione deve partire con autocritica verso le professioni tecniche, le quali – a mio avviso – non hanno sufficientemente segnalato le storture, gli errori, le negligenze. O se lo hanno fatto, lo hanno fatto in modo debole, con iniziative ex tempore e di scarsa efficacia. Iniziative e buoni propositi puntualmente ignorati dai commissari.
Ciò detto la ricostruzione è sostanzialmente ferma. La ragione principale credo, a ragion veduta, sia, però il copro normativo dispiegato per gestire le procedure e le pratiche necessarie. Norme non armonizzate, incerte (esse medesime fissano scadenze per lo Stato che lo Stato stesso disattende), ridondanti e farraginose.
Anche qui si dirà che è colpa della burocrazia. Invece no! Perché riferirsi ad un sostantivo impersonale non fa comprendere la vera natura della questione. La burocrazia non è un’erba spontanea ma una piantina che meticolosamente viene piantata e coltivata.
Scrivere ordinanze e norme richiede tempo. Richiede impegno e competenza. Se il frutto di questo tempo e di questo impegno sono procedure unanimemente riconosciute inappropriate, si può ben dire che le doti prima menzionate siano venute meno.
Tuttavia la sola critica è spesso un esercizio sterile. Per uscire da questa impasse iniziamo ad interrogarci su cosa sia la ricostruzione.
In primis va ricordato che, nella nostra provincia, di fronte ad un sisma che ha liberato un’energia molto superiore a quella assunta di progetto e accelerazioni fra le più alte registrare da sempre in Italia, si è avuto il risultato di salvare la vita umana. Salvare la vita umana è il fine ultimo dell’attività del progettista.
Il patrimonio costruito, specie quello storico, ha però accusato duramente il colpo.
Quindi, l’esperienza maturata, dimostra che ci sono le capacità per ben costruire. Infatti le costruzioni e le ristrutturazioni fatte si sono degnamente comportate di fronte a questo grande sisma. Ciò evidenzia come questi progetti di ricostruzione possano essere gestiti con competenza nell’ambito dell’ordinaria attività progettuale e costruttiva. Vale la pena ricordare che gli edifici di recente costruzione non hanno avuto danni significativi.
Allora cosa rende diversi i progetti di ricostruzione dagli altri, fino a frenarli? La risposta è: il contributo pubblico a fondo perduto.
Ed è per elargire questo contributo che lo Stato, per mano del Commissario straordinario alla ricostruzione, pretende una serie di adempimenti tali da risultare a volte irritanti. Si va dai documenti da produrre più e più volte andando a aumentare la mole di elaborati richiesti, fino all’esame dei progetti che interferisce con le scelte progettuali. Quest’ultimo aspetto è poi il più delicato: di chi sarà la responsabilità di un progetto modificato sulla base delle richieste dell’ufficio ricostruzione?
Tutto sembra scritto con la presunzione che chi opera sul campo sia pronto a lucrare indebitamente sui lavori. Non si capisce invece che è proprio nei meandri della complicazione che si annida la corruzione e la disonestà! Se il processo è semplice e lineare non vi sono sacche, non vi sono anfratti, non vi sono ombre.
Chiarito che il “tappo” è costituito dagli adempimenti richiesti, proviamo a scrivere un finale dignitoso al film. Non sarebbe più snello e semplice gestire questi progetti come ordinari? Non sarebbe poi altrettanto semplice lasciare allo Stato la sola azione di controllo postuma e non preventiva?
La ricostruzione sarebbe gestita da chi effettivamente ed in modo capillare è “sul campo” sapendo che, se venissero accertate delle irregolarità ci sarebbero sanzioni severissime ed inappellabili per i soggetti coinvolti. Gli uffici per la ricostruzione dovrebbero esercitare un controllo preventivo di ammissibilità. Successivamente o in corso d’opera poi, gli stessi uffici, dovrebbero essere usati come rigidi controllori.
D’altronde ogni contributo pubblico viene sempre gestito così, penso ad esempio ai Piani di Sviluppo Rurale che seguono una procedura simile.
Creare un percorso ad ostacoli, penalizzante per i senzatetto, per le imprese e per i tecnici induce a comportamenti indebiti che sono proprio quelli che si vorrebbero evitare.
Questa provincia non merita il senso di abbandono a cui da troppi mesi è destinata ed è compito delle associazioni di categoria, degli ordini, dei collegi e delle persone di buona volontà fare proposte ed operarsi affinché si inverta repentinamente la rotta. Azzerando quanto non ha funzionato e comprendendo che in questa realtà ci sono le risorse e le competenze per ben costruire e ben ri-costruire, lasciatecele mettere in campo. Estirpiamo la burocrazia e prima ancora chi ce la impone. Liberate le nostre risorse.
*Stefano Donati, ingegnere di Montefano
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Caro collega, devo dissentire su quanto afferma nel suo articolo.
Ho vissuto la ricostruzione del post-sisma 1997 e ho rivisto gli stessi luoghi ora. La distruzione è pressochè totale in alcune frazioni, segno che gli interventi allora fatti, sono stati inefficaci. Lasciamo perdere la sismicità prevista dalle allora norme, la causa di tutto ciò è da ricercare principalmente in una normativa sismica che permette ancora l’uso della parola miglioramento sismico e non adeguamento sismico ma soprattutto la presenza di professionisti, anche all’interno della stessa categoria degli ingegneri, con scarsa preparazione in materia di costruzioni in zona sismica e ancora di più in materia di consolidamento di costruzioni in zona sismica. La materia è recente e stranamente in tanto proliferare di corsi di laurea, nessuno ha ancora pensato a una figura di ingegnere altamente formata e competente nelle materie legate alle costruzioni in zona sismica.
Non ci vorrebbe molto a dire il vero a fare un controllo tra gli interventi fatti nel post-sisma 1997 e gli esiti dei sopralluoghi e delle verifiche attuali. Sismi con magnitudo differenti, ciò comunque non giustifica quella che è stata a mio parere la realtà delle cose. Ovvero che la ricostruzione post-sisma del 1997 non ha prodotto gli effetti che si sarebbero dovuti raggiungere. Paradosso. Nel corso dei sopralluoghi che ho fatto in uno dei comuni montani maggiormente colpiti dall’ultimo terremoto, su due frazioni visitate, tra i pochi edifici agibili abbiamo trovato una porzione di estremità di un grosso aggregato completamente ricostruita in modo adeguato e con giunto sismico (il resto dell’aggregato solo riparato dai precedenti danni è parzialmente crollato) e una bellissima casa in pietra e legno che la proprietaria ha dovuto combattere a suo tempo con gli enti autorizzatori per poterla costruire, poichè si diceva allora che non era tipologia costruttiva del territorio. Adesso tutti vogliono le case in legno!
Se non cogliamo questa occasione per raddrizzare la barra, prenderemo la rotta sbagliata anche questa volta.
ing. Brutti, sono anche io collega in attività e mi addolora particolarmente leggere questo suo post. Ho preso parte alla ricostruzione del 97 da giovane laureato ed ho avuto modo di verificare che alcuni degli interventi di maggiore dimensione, tra i quali un edificio di 5 piani in muratura allora inagibile, questa volta ha riportato danni prossimi allo zero. Questo per argomentare che allora come oggi le possibilità tecniche di effettuare interventi fattivi c’erano e ci sono. Che molti degli edifici più nuovi non hanno riportato danni significativi ne è parziale conferma per consentire l’osservazione relativa al fatto che, se alcuni di essi ne hanno incassati, ancora margine per migliorare norme generali, parametri locali e dettagli costruttivi ci sono e vanno cercate. Il limite più grande evidenziato in questo sisma è che costruzioni in pietra o in mattoni (ma se particolarmente irregolari o scadenti nelle caratteristiche meccaniche) anche se subiscono interventi di consolidamento mantengono la loro insufficienza, la loro inadeguatezza alla sismicità delle nostre zone. All’epoca, nella convinzione della conservazione soprattutto dei fronti, questi immobili sono stati soggetti ad interventi. Che, nonostante la buona volontà di tutti i soggetti impegnati, non sono stati spesso sufficienti. In merito all’articolo del collega Donati, che conosco e stimo per la qualità tecnica e personale che pone in ogni aspetto della professione che svolgiamo, non posso far altro che spezzare una lancia. Perchè nessuno degli interventi potrà essere migliore se a qualche documento tecnico aggiungiamo decine di procure speciali, contratti con imprese che hanno alla base un importo lavori che potrebbe essere soggetto a revisione…che utilità vera hanno le nostre giornate di lavoro? infine, sperando non sia così, le prime ordinanze sembra siano orientate (ancora una casistica reale non c’è….spero che non sia come temo) alle riparazioni “lievi”…ma davvero di fronte ad un divisorio pesantemente danneggiato vogliamo credere che la riparazione è il rifacimento del divisorio…senza poter andare ad incidere sulle motivazioni che hanno causato magari gli spostamenti più importanti tali da arrivare a quel danneggiamento?
La ricostruzione sta partendo faticosissimanente, con norme poco chiare e poco utili dal punto di vista davvero antisismico. Ma con tante procure, una enormità di dati da inserire nel sistema informatico, tanto da realmente quasi spostare l’attenzione sui profili formali che su quelli realmente utili. Speriamo davvero il tempo sia utile a tutti, soprattutto uffici dedicati e professionisti impegnati, a trovare la vera chiave di lettura che oltre alla riparazione dei danni possa aiutare concretamente ad avere un patrimonio edilizio più capace di rispondere ad eventi come quelli accaduti.