Brividi di freddo e d’emozione
per la nuova Traviata degli Specchi

MACERATA OPERA, LA RECENSIONE- La pioggia non ferma il debutto dello spettacolo, iniziato con due ore e mezzo di ritardo. Una lettura registica più densa di simboli e una direzione d'orchestra attenta a sottolineare le sfumature psicologiche dei personaggi accentuano il fascino intramontabile di questa Traviata ultraventennale. Trionfo personale per Jessica Nuccio e Simone Piazzola

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maria stefania gelsominidi Maria Stefania Gelsomini

(foto di scena Alfredo Tabocchini)

La Traviata degli Specchi non invecchierà mai. Se ne è avuta la riprova ieri sera allo Sferisterio dove è andata in scena, con due ore e mezzo di ritardo a causa della pioggia, la prima del capolavoro verdiano, terzo e ultimo titolo del Macerata Opera Festival 2014.  Sul palco maceratese era il quarto debutto (dopo 1992, 1995 e 2012), ma di quanti ne abbia fatti in giro per il mondo forse neanche il regista Henning Brockhaus tiene più il conto. È lui uno dei grandi artefici del successo di questo allestimento che non tradisce mai il minimo segno di stanchezza, ma che anzi riesce a rinnovarsi e a rapire il pubblico a ogni messa in scena in un diverso teatro, con una diversa compagnia di canto. Il resto l’hanno fatto il genio di Josef Svoboda, lo scenografo boemo che ventidue anni fa ha inventato allo Sferisterio e per lo Sferisterio un gioiello entrato ormai di diritto nella storia della lirica, la direzione d’orchestra impeccabile e autorevole di Speranza Scappucci e un cast giovane di ottimo livello, su cui hanno brillato Jessica Nuccio (Violetta) e Simone Piazzola (Germont), compagni nella vita e duo affiatato sul palco.

Il direttore artistico dello Sferisterio, Francesco Micheli annuncia che lo spettacolo si farà (Foto Guido Picchio)

Francesco Micheli si scusa con il pubblico per i disagi dovuti al maltempo ai lati il direttore tecnico Luciano Messi e il Sindaco Romano Carancini (foto di Guido Picchio)

Le premesse meteorologiche non erano delle migliori. A dieci minuti dall’inizio dello spettacolo,   previsto per le ore ventuno, la pioggia ha iniziato a cadere mettendo a dura prova la resistenza degli spettatori, che hanno atteso pazientemente la fine del diluvio nel foyer, nei corridoi superiori, sulle scale o magari al riparo in qualche bar dei dintorni, armati di giacche, impermeabili e santa   pazienza. Due ore, da regolamento, il tempo massimo di attesa per poter riprendere lo spettacolo. E quando ormai nessuno ci credeva più, neanche uno sconsolato Francesco Micheli, e l’annullamento della recita sembrava inevitabile, a dieci minuti dalle ventitré il cielo si è aperto e la pioggia è cessata. Nonostante il freddo quasi invernale e l’umidità il pubblico, rimasto quasi al completo a parte qualche isolata defezione, è rientrato frettolosamente in arena e dopo le laboriose operazioni di asciugatura del palco, del golfo mistico e dei sedili di platea e gradinate Micheli è salito sul palco per riferire – in italiano, in inglese e senza microfono perché l’impianto audio era saltato – che alcuni movimenti di scena e alcuni effetti luce non potevano essere effettuati per i danni causati dalla pioggia. Alle prime reazioni a caldo (si fa per dire vista la temperatura) all’annuncio, con contestazioni e fischi, è seguito un applauso liberatorio quando il direttore artistico ha rassicurato il pubblico che la qualità dello spettacolo non ne avrebbe risentito.

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Alle 23.30 finalmente la travagliata Traviata ha avuto inizio. Le piccole ma significative modifiche apportate da Brockhaus rispetto alle edizioni precedenti si incentrano su alcuni movimenti scenici e di luci (che il regista cura insieme a Fabrizio Gobbi) volti a enfatizzare in misura ancora maggiore la sua lettura simbolica, la fedeltà al romanzo di Dumas da cui il dramma di Verdi è tratto e il recupero di molti elementi che nel passaggio da Prévost (la   settecentesca Histoire du chevalier des Grieux et de Manon Lescaut) a Dumas (La signora delle Camelie) a Verdi, ovvero da Manon a Marguerite a Violetta, si erano persi. Fedele al romanzo è già l’inizio dell’opera, col rientro di Armand-Alfredo dopo la morte di Marguerite-Violetta, in realtà lo stesso Dumas rientrato a Parigi dopo l’infelice storia d’amore con la mantenuta d’alto bordo Alphonsine Plessis in arte Marie Duplessis, morta a soli 24 anni nel 1847. Nonostante si fossero ritirati a vivere in campagna, la donna continuava a ricevere clienti spedendo in un appartamentino, durante i suoi incontri amorosi, lo scrittore pazzo di gelosia, fino a costringerlo alla fuga dopo averle scritto una drammatica lettera d’addio. Sono le lettere che Dumas ha comprato all’asta dopo la morte di Marie che Alfredo legge e rilegge nel preludio di Traviata cercando di capire una storia che non potrà mai capire, sotto l’enorme specchio che si apre come la lapide di una tomba o come un libro che è stato già chiuso, su una musica che è il tema della morte di lei. Ma ecco apparire Violetta felicissima ed euforica nonostante sappia di essere malata, che rientra a Parigi col Barone Douphol dopo essersi curata, pronta a riprendersi lo scettro di regina delle notti folli parigine a spese di Flora: è il linguaggio simbolico del teatro in cui si salta da un tempo all’altro.

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Altra modifica operata da Brockhaus è nella stretta del coro nel primo atto, quando la prostituta Violetta è dilaniata dal contrasto fra la novità di un sentimento puro che avverte come impossibile e le sirene irresistibili del piacere mondano e festaiolo. La scena diventa un incubo di Violetta, con i coristi-uccelli del malaugurio che come zombie la accerchiano e tentano di saltarle addosso in una luce celeste surreale (“Si ridesta in ciel l’aurora”). Anche la figura del Dottore, secondo Brockhaus molto trascurata ma piena di risvolti, ha in questo allestimento un risalto maggiore. Viene messo in scena come un personaggio innamorato di Violetta dall’inizio alla fine (nel primo atto stritola un bicchiere quando vede che i due si piacciono e persino nell’ultimo atto cerca di allontanare Violetta da Alfredo, ma si allontana deluso quando lei lo chiama vicino a sé). “Sarebbe per lei il partner perfetto – scherza il regista tedesco – ha i soldi e la può curare, ma la chimica fra loro non funziona!”.  Lo stesso Germont padre non è dipinto come una figura del tutto negativa, ma attraversata da luci e ombre come tutti. Sono le circostanze della vita a far emergere i lati buoni o cattivi del suo carattere, tant’è vero che mantiene Violetta negli ultimi mesi (come Dumas padre mantenne Marie malata) e chissà quali altre idee aveva in testa, immagina Brockhaus (“Bella voi siete e giovine…”), è geloso del figlio e probabilmente vorrebbe andarci a letto anche lui.

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L’impostazione generale è rimasta comunque la stessa, ciò che cambia di volta in volta è il lavoro sui personaggi che il regista fa con i cantanti, in base alla loro età e soprattutto alla loro personalità. Brockhaus, che ha definito la soprano palermitana Jessica Nuccio “giovanissima, agile, un pò pazza e molto sexy, giustissima per il personaggio”, ha potuto fare con lei in scena cose che non aveva potuto fare prima con nessun’altra Violetta, come gli atteggiamenti provocanti alla festa nel primo atto dove si beve, si amoreggia, si folleggia. Violetta vestita di bianco scopre le gambe, mostra le calze e la giarrettiera, si siede con pose lascive sopra ai suoi amici uomini sui divanetti, infine si sdraia in terra sollevando la gonna davanti ad Alfredo nel momento del brindisi, e si fa accarezzare da lui in maniera allusiva. Applausi come da copione al termine del “Libiam” e applausi a “Un dì felice eterea” del tenore spagnolo Antonio Gandìa, corretto ma in verità non troppo emozionante. Poca convinzione anche nel “Io son, io son felice!” di Alfredo quando Violetta lo invita a ritornare il giorno dopo, che avrebbe richiesto forse un po’ più di volume. Dopo essere rimasta sola Violetta   si spoglia dei suoi gioielli e della parrucca bionda, è il momento dell’aria “È strano!… È strano!…”,  che la Nuccio canta lunga sul divanetto, con grande intensità. Quando si scuote dai suoi pensieri d’amore, il primo “Follie, follie” è quasi sussurrato, e riprende il controllo di sé con un “Sempre libera degg’io” in piedi sul canapè, lanciando l’acuto finale seduta a cavalcioni sulla sommità del sedile imbottito, per poi ricadere sfinita sul divanetto. La recitazione con le sue giravolte e i passi accennati di danza asseconda il ritratto di una Violetta molto giovane e spontanea, che si mostra a volte persino bambina, pazza di gioia o sopraffatta dalla paura.

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Nel secondo atto è Violetta ad abbandonare Alfredo ma in Dumas è il contrario. Subentra, secondo Brockhaus, un momento molto cattolico e italiano: Violetta vuole salvare la sua anima sapendo di essere malata e Germont fa leva proprio su questo cantando “Pura siccome un angelo”, su un tappeto di margherite che simboleggia l’aldilà e il paradiso che la attende. Secondo la lettura del regista tedesco Violetta molto egoisticamente, conscia del suo destino di morte che vede come una punizione divina, taglia i legami con Alfredo per salvare se stessa. Persino Annina odia Alfredo,  perché a causa sua vivono lì e non fanno più la bella vita. Dunque la madamigella Valery abbandona il suo tenore squattrinato per ritornare a un tenore di vita elevato. La vita in campagna aveva dissipato ogni suo avere (nuova la scena della coppietta che entra con Annina e acquista lo   scrittoio, unico elemento d’arredo superstite) mentre Violetta e Giorgio Germont duettano. L’atto si apre con la celebre aria “Dè miei bollenti spiriti”, che Gandìa affronta con piglio gagliardo seppur con qualche piccola preoccupazione nella voce, tradita da un po’ di fretta, applaudito comunque dal pubblico, pure come nella doppia cabaletta “Oh mio rimorso!… Oh infamia!” (la seconda volta cantata seduto allo scrittoio, con una leggera punta di affanno). L’ingresso di Germont è autoritario, la voce del baritono Simone Piazzola è bella, piena, sicura e perfetta per il ruolo. Ad ascoltarlo, non   si direbbe mai che questo vecchio padre nella realtà abbia solo ventinove anni. Il duetto Germont- Traviata è molto bello e convincente, uno dei momenti migliori dal punto di vista vocale dell’intera opera, e accanto alla bellezza delle loro voci e alla tecnica indiscutibile, il feeling fra i due cantanti c’è e si avverte tutto.

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traviata 14 (7)Quando Germont convince Violetta a sacrificarsi per il bene della famiglia di Alfredo, la Nuccio sa convincere il pubblico con il dolore della sua interpretazione sia vocale che recitativa (“Dite alla giovine”) e con il dolore dell’addio (“Felice siate… Addio!”). Anche nel celeberrimo “Amami Alfredo” Violetta, in preda alla disperazione, non drammatizza come spesso succede il suo distacco da Alfredo e dall’amore, ma pronuncia piano quelle parole, rivolgendosi quasi più a se stessa. Molto applaudite l’aria del baritono “Di Provenza il mare, il suol”, con un Piazzola in splendida forma che dispiega una voce potente, scura ma rotonda, e l’ottima doppia cabaletta di Germont (“No non udrai rimproveri…”). Nel cambio scena si torna a Parigi, allo sfavillio di luci e colori, di oro, di rosso e di nero dei costumi di Giancarlo Colis, alla festa sfrenata dove ballerine di flamenco, matador, donne dai facili costumi e giocatori d’azzardo si divertono all’impazzata sulle coreografie di Valentina Escobar. È la scena dell’insulto violento di Alfredo a Violetta, la scena del grande concertato finale, musicalmente uno dei momenti più intensi dell’opera.

Poi tutto cambia nel terzo atto, un nudo palco con un letto nero, pochi candelabri buttati a terra e il buio che anticipa la morte. Difficile spiegare l’impatto emotivo che questa scena è capace di suscitare ogni volta, la forza del teatro che entra metaforicamente dentro ogni spettatore quando lo specchio di alza in verticale e il pubblico si ritrova dentro la storia. La Traviata, avvolta in una luce bianca spettrale, sembra il fantasma di se stessa. Si trascina sul letto per rileggere la lettera in cui Germont le preannuncia il ritorno di Alfredo, con un filo di voce, senza enfasi o forzature, e il suo “è tardi!” esplode come un grido di rabbia disperato. L’ “Addio, del passato” è carico di dolore, molto delicato, mai urlato, cantato con una scatola di ricordi stretta fra le mani da cui esce un vecchio cappellino di paglia che Violetta stringe a sé (“Della traviata sorridi al desio”). È apparsa   senza sbavature ma anche qui meno convinta l’interpretazione di Alfredo, la cui felicità nel ritrovare e stringere l’amata risulta un po’ di maniera. I due innamorati cantano il duetto “Parigi o cara” accennando quasi un balletto, mentre al momento straziante di “Gran Dio! Morir sì giovane” stanno entrambi sul pavimento. Gli altri personaggi entrano in scena, Germont, Annina e il Dottore, e alle parole “Ascolta amato Alfredo” lo specchio come di consueto comincia ad alzarsi, Violetta canta  “Se una pudica vergine” e la platea viene inondata di luce. Un finale da pelle d’oca (e non solo per il   freddo pungente) che ha sancito un trionfo per la brava Jessica Nuccio, la soprano palermitana,   classe 1985, vincitrice del primo concorso Marcello Giordani e allieva di Simone Alaimo, che ha debuttato proprio come Violetta alla Fenice di Venezia, ruolo che ha cantato anche a Valencia con Zubin Mehta e a Trieste.

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traviata 14 (3)Trionfo personale per l’altrettanto bravo Simone Piazzola, il baritono ventinovenne veronese che ha debuttato giovanissimo ed è ormai lanciato in una brillante carriera  con già numerosi ruoli in repertorio. Apprezzato Conte di Luna lo scorso anno a Macerata nel  Trovatore, ha già interpretato il Germont nella Traviata degli Specchi a Jesi (2009), a Napoli (2010)  e a Palermo con la direzione di Bruno Bartoletti (2012), e in diverse altre produzioni (a Venezia, Valencia e Hong Kong solo nel 2013, anno in cui ha vinto il secondo premio e il premio del   pubblico al Concorso Operalia di Placido Domingo a Verona). Tanti applausi anche per il tenore di Toledo Antonio Gandìa, che dal debutto avvenuto nel 2000 canta prevalente in Spagna e in Italia, è stato già Alfredo all’Opera di Roma con la direzione di Gelmetti e la regia di Zeffirelli nel 2009, e l’anno prossimo lo sarà a Madrid col maestro Palumbo. Molto applauditi anche Speranza Scappucci ed Henning Brockhaus insieme al costumista Giancarlo Colis, alla coreografa Valentina Escobar e a tutto il resto del cast: la Flora di Elisabetta Martorana, l’Annina di Murielle Tomao, il Gastone di Pietro Picone, il barone Douphol di Alessandro Battiato, il marchese d’Obigny di Andrea Pistolesi, il dottor Grenvil di Giacomo Medici. Repliche l’1 e il 9 agosto. La Traviata composta nel 1853, diciannovesima delle 27 opere di Verdi (33 se si considerano le  riscritture), collocandosi più o meno a metà della sua produzione contiene tanto del primo Verdi quanto dell’ultimo di Otello e Falstaff, come ha confermato l’italiana Speranza Scappucci, terzo direttore d’orchestra donna a salire sul podio dello Sferisterio dopo l’inglese Julia Jones e la coreana Eun Sun Kim. Un sorprendente tris femminile alla conduzione musicale del MOF 2014, ventitré anni dopo la presenza di Elisabetta Maschio nella Madama Butterfly di Bolognini nel 1991.

traviata 14 (6)La Scappucci ha proposto una lettura della partitura di notevole sensibilità: “In Traviata ci sono ancora le melodie del belcanto in cui la voce sembra prevalere sull’orchestra, ma c’è anche un forte sviluppo dei personaggi che non hanno una struttura e ci proiettano verso un Verdi più maturo, con momenti musicali rivoluzionari. A parte le otto battute dell’aria di Violetta del primo atto, ho scelto di fare la versione integrale, con le cabalette ripetute, perché nella ripetizione ci può essere uno sviluppo musicale o un’evoluzione psicologica del personaggio. C’è un motivo per cui Verdi ripete la cabaletta, e le farò in maniera diversa. Perciò ho lavorato tantissimo coi cantanti, anche al pianoforte, per cercare di capire l’intima connessione tra parole e note, per dare a ogni singola nota una sfumatura, per esprimere il dubbio (come quando Alfredo riceve la lettera di Violetta nel secondo atto: “Di Violetta… perché son io commosso….”), per dare un colore sempre diverso all’orchestra in base alle parole. Ci sono in Traviata dei passaggi in cui bisogna cercare di capire cosa volesse Verdi, e l’unica chiave di lettura diventa il testo”. Uno di questi è lo straordinario finale (“È strano… Cessarono gli spasmi del dolore… in me rinasce… m’anima insolito vigore!…”) con i violini, e poi gli archi, pianissimi, e i fiati che entrano uno alla volta mentre il respiro di Violetta se ne sta andando via. Un momento etereo, in cui Verdi è riuscito a costruire qualcosa in cui la vita e  la morte diventano una cosa sola. “Sto ancora cercando di capire perché l’ha scritto così” ammette la Scappucci, ed è questo forse il motivo dell’eterna magia di quest’opera. Una magia rimasta intatta anche ieri sera, nonostante si sia conclusa alle 2,30 di notte dopo una serata a dir poco complicata per tutti.

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Pioggia sulla Sferisterio (foto di Guido Picchio)

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Il pubblico paziente ha atteso l’inizio dell’opera fino alle 23.45 (foto di Guido Picchio)

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Tra il pubblico l’ambasciatore di Israele, Naor Giilon (foto di Guido Picchio)

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