L’assurdità di una via
e i limiti della scienza

Mandela, Almirante, Leopardi, la povera Yara. I dubbi sull’Infinito di Cingoli
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liuti-giancarlodi Giancarlo Liuti

Non parlare più di politica? Mica facile quando accadono vicende come quella di una via di Civitanova che la vecchia giunta di centrodestra aveva intitolato a Giorgio Almirante, la nuova giunta di centrosinistra ha intitolato a Nelson Mandela e adesso, pare su indicazione della Prefettura, dovrebbe chiamarsi “Mandela” e anche “Almirante”. Ma la politica, qui, c’entra fino a un certo punto, perché stavolta vi si è aggiunto un intervento della burocrazia amministrativa, alla quale, dall’alto del proprio formalismo legalitario, sembra essere sfuggita l’assurdità sostanziale di un qualsiasi rapporto fra due figure che più inconciliabili non potrebbero essere: da una parte il celeberrimo, a livello mondiale, simbolo della lotta contro la segregazione razziale e dall’altra il firmatario, pressoché sconosciuto a livello mondiale, delle leggi razziali del regime fascista e di alcuni manifesti mortiferi della Repubblica di Salò. L’unica cosa che li accomuna, ma è un’aggravante, sta nel fatto che nessuno di loro ha mai avuto contatti né familiari né operativi né d’altro genere con la realtà civitanovese. Da politica qual era all’inizio, dunque, la cosa rischia di assumere un aspetto che si avvicina alla comicità delle imitazioni televisive di Maurizio Crozza.
via almirante (2)

Il mio, intendiamoci, non vuol essere un giudizio ideologico di parte perché, anche se credo in certi valori (proprio l’altro giorno è stato celebrato il settantesimo anniversario della liberazione di Macerata, quando il capo partigiano Augusto Pantanetti issò per primo sul Monumento della Vittoria il vessillo della Resistenza), mi rendo conto che il fluire magmatico della storia ha una concatenazione di cause ed effetti con rivolgimenti epocali, opposte scelte di campo anche in buona fede, conflitti fratricidi, sanguinosissime guerre. Ma immalinconisce constatare che una città vitale e arrembante come Civitanova s’impantani in dispute di così scarsa serietà. Perciò basta. E mantengo la mia scelta di non parlare più di politica, anche perché negli ultimi sviluppi di questa vicenda la vera politica, bella o brutta che sia, c’entra poco.

 

Giacomo Leopardi

Giacomo Leopardi

Di che cosa, allora, occuparmi? Di Giacomo Leopardi e del terzo manoscritto dell’Infinito che mesi fa è saltato fuori in quel di Cingoli, dopodiché è stato messo all’asta per un valore di 150.000 euro e infine è stato ritirato perché il proprietario preferirebbe che rimanesse in Italia o, meglio, nelle Marche e fosse acquistato dalla Regione. Magari scherzando ma dico subito che io, nei suoi panni, mi sarei comportato allo stesso modo. E non solo per un lodevole sentimento di amor di patria, ma perché offeso dall’aver saputo che alla casa d’aste Sotheby’s di New York il manoscritto di Bob Dylan “Like a rolling stone” è stato venduto per 1,7 milioni di dollari. Via, vogliamo prenderci in giro? Premesso che sono un fan di Bob Dylan, il numero uno della “folk music” degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, vi sembra giusto che Leopardi valga nove volte meno di lui? Il mercato, d’accordo. L’irresistibile attrazione della contemporaneità, d’accordo. Il gran clamore mediatico suscitato dai concerti, anche a Roma, dei “Rolling Stones” di Mick Jagger con “Satisfaction”, d’accordo (ma attenzione: l’espressione “rolling stone” non allude necessariamente a un rapporto fra Dylan e Jagger, trattandosi di un antico proverbio inglese secondo il quale una pietra che rotola non produce muschio, ossia non serve a nulla). D’accordo, d’accordo. Ma Leopardi, su, avrà pure il diritto a una sua universale dignità o no?
Giacomo compose l’Infinito, a Recanati, nel 1819, a ventuno anni, dopodiché questo e altri cinque “Idilli” vennero pubblicati a Milano nel 1825 in una stesura che va considerata definitiva, e il testo, quello per così dire ufficiale, si trova nella Biblioteca di Napoli. Quando Giacomo scrisse l’Infinito – a 21 anni, ripeto – mi resta difficile supporre che fosse consapevole della celebrità che questi suoi quindici versi avrebbero ottenuto in futuro, fino a renderli l’opera sua di gran lunga più nota e ammirata, per cui, di fronte alle diverse stesure saltate fuori in tempi assai successivi – quella di Visso e, adesso, quella di Cingoli – mi chiedo per quale ragione lui dovesse preventivamente impegnarsi, più che per altri “Idilli” (pure il “Sogno”, altrettanto breve dell’Infinito ma non altrettanto famoso), in modifiche, correzioni e sostituzioni di singole parole (rispetto al testo definitivo, nell’Infinito di Visso ce ne sono tre e in quello di Cingoli, che dovrebbe essere ancora precedente, ce ne sono ben cinque). Perché mai questo particolare accanimento di autorevisione? Forse perché lui già sentiva, in cuor suo, che l’Infinito l’avrebbe reso celebre agli occhi del mondo e quindi fosse meritevole di una particolarissima cura? No. La celebrità venne dopo, a molti decenni o addirittura a un secolo dalla sua morte. E allora, pur consapevole delle mie lacune in fatto di estetica leopardiana, a me sorge il sospetto che pure quelle modifiche, correzioni e sostituzioni di parole siano venute dopo, siano, cioè, non autografe. Effetti della celebrità – meritatissima, sia chiaro – che in qualche misura genera mode, interessi e appetiti anche commerciali? Non lo so, ma così va il mondo, da sempre. E solo gli ingenui possono stupirsene.
Ma che questo mio stravagante sospetto sia del tutto infondato viene ora decretato dalla scienza, come a proposito del testo di Cingoli risulta dalle affermazioni di autorevoli specialisti di grafologia e datazione della carta, dell’inchiostro, dei timbri. E allora lasciatemi tracciare un forse sacrilego raffronto tra la suprema bellezza dell’Infinito e il supremo orrore dell’assassinio di Yara Gambirasio, una vicenda, questa, nella quale la scienza – l’analisi spettrografica del Dna – offre sì una prova pressoché inconfutabile ma ciò non esclude che si cerchino indizi nient’affatto scientifici: i ricordi della gente, i rapporti familiari, le frequentazioni, le soste delle auto, il suono di grida, i messaggi e-mail, le vecchie fotografie. Non solo scienza, dunque: le indagini si allargano a una dimensione meno scientifica e più “umana”.
Il che, a quanto pare, non sta avvenendo per l’Infinito di Cingoli, a proposito del quale, accanto alle prove scientifiche, non si è sviluppata una pari riflessione di carattere storico, poetico, letterario e, in definitiva, “culturale”. Già mezzo secolo fa, quando ancora la scienza non godeva di un assoluto privilegio in fatto di autenticità, illustri studiosi dell’estetica di Leopardi – Timpanaro, Monteverdi e altri – avevano messo in guardia contro “Alcune falsificazioni di scritti leopardiani” e avevano esplicitamente parlato di “Falsa e vera storia dell’Infinito”. C’è allora bisogno di ulteriori riflessioni che non siano solo scientifiche ma, appunto, a livello culturale, più “umane”. Ecco perché condivido i dubbi espressi dell’ottima – e nostra – Donatella Donati, per la quale, da lunghi studi, Giacomo è come un fratello, e da Vanni Leopardi, lontano erede di Giacomo e documentato conoscitore di quell’antica famiglia (leggi l’ultimo articolo).



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