di Edoardo Salvioni
Pasolini concepisce una sorta di riassetto mondiale in cui tutti gli umili della terra si riuniranno per soppiantare il mostruoso possesso dei vertici, dei potenti, della civiltà.
Come mezzo per questa nuova ipotizzata fase della storia, in cui avverrà una definitiva liberazione da una logica di potere secolarmente dominante ed alienante la vita di ogni singolo uomo, Pasolini utilizza una categoria tanto ineffabile quanto in realtà presente, da lui definita come il selvaggio. Una delle prime questioni che si potrebbero porre, se il selvaggio sia una forza storica, e come si pone il selvaggio dinanzi alla storia? In tal senso, un autore che ha dissertato a lungo sul concetto di selvaggio e la sua presenza nella storia, quale Claude Lévi-Strauss, pur traendone una visione decisamente più complessa e meno finalizzata ad una mira storicista, pone delle riflessioni interessanti, nel capitolo Dialettica e storia, contenuto nel libro Il pensiero selvaggio:
In realtà, la storia non è legata all’uomo, né a nessun oggetto particolare. Essa consiste interamente nel suo metodo, di cui l’esperienza prova che è indispensabile per inventariare l’integralità degli elementi di una struttura qualsiasi, umana o non umana. Non è dunque la ricerca dell’intelligibilità a sfociare nella storia come suo punto d’arrivo, ma è la storia che serve da punto di partenza per ogni ricerca dell’intelligibilità. Così, come si suol dire di certe carriere, la storia conduce a tutto, purché se ne esca. Quest’altra cosa, a cui rinvia la storia avida di riferimenti, dimostra che la conoscenza storica, per grande che sia il suo valore ( che non ci sogniamo di contestare), non merita che la si contrapponga alle altre forme di conoscenza come una forma assolutamente privilegiata. [….] La si scopre già radicata nel pensiero selvaggio, e comprendiamo ora perché mai in esso non fiorisca. È tipico del pensiero selvaggio l’essere atemporale; esso vuole cogliere il mondo come totalità sincronica e diacronica, e la conoscenza che ne acquista assomiglia a quella che offrono, di una camera, degli specchi fissati a muri opposti e che si riflettono a vicenda ( così come gli oggetti che si trovano nello spazio che li separa), ma senza essere rigorosamente paralleli. […] Il pensiero selvaggio approfondisce la sua conoscenza con l’aiuto di imagenes mundi. Costruisce edifici mentali che gli facilitano l’intelligenza del mondo per quel tanto che gli assomigliano. In tal senso, lo si è potuto definire come pensiero analogico.
Dunque il selvaggio per sua stessa natura tenderebbe ad eludere la storia, ad essere un pensiero a contenuto altamente simbolico e dunque unificante in figurazioni, che conferiscono un senso totale. Esse vanno ad inserirsi all’interno del processo storico come una fase totalizzante e ciclica, non di certo lineare e progressiva. L’immagine dello specchio che riflette continuamente se stesso ad infinitum è in tal senso perfetta. Nel discorso di Pasolini, questo concetto, pur rimanendo analiticamente con gli stessi elementi che il filosofo francese ravvisa come costituenti, assume una valenza a suo modo tanto inusuale, quanto contigua al concetto esposto sopra.
Il selvaggio viene ad assumere una valenza monoliticamente eversiva rispetto alla storia della civiltà. Il suo ruolo è sia negativo, sia positivo. Esso va inteso allo stesso momento in «un’ accezione negativa, nell’ “oscurità” e nella “primitività” come sintomi di inspiegabilità alla ratio e alla storia che la presuppone, le quali connotano la «condizione selvaggia». Allo stesso tempo Pasolini vi accenna con toni positivi, come una condizione di felicità, per quanto brutale e non scevra da violenza, definita come uno «stato di felicità selvaggia», come una qualità che assume i tratti di una immutabile grazia, intaccabile. Essa deve essere difesa nel corso della storia, nel pericolo della sua scomparsa nella Preistoria del Neocapitalismo. Il razionale è dunque ciò che è “storico” in una certa ottica, per quanto semplificatoria. La dialettica dei due termini assume dunque, di conseguenza, un valore bivalente in relazione alla sua applicabilità, di cui però l’ autore sembra tanto nutrire una genuina fiducia quanto un disilluso scetticismo, in alcuni frangenti. In ogni caso, l’ Africa assume, in buona parte della produzione pasoliniana intorno a questo tema, il ruolo di una «nuova “ragione” nascente contrapposta al “patto industriale” corruttore della vecchia Europa». La dialettica del razionale-selvaggio come civiltà-barbarie viene così capovolta e riconsiderata in una visione ciclica, in una visione di reciprocità correlativa, in cui, come negli specchi esemplificati di sopra, la civiltà distorce la barbarie per controllare, la barbarie distorce la civiltà per soppiantarla.
Con la medesima intenzione, nella poesia chiamata La guinea, i versi finali sembrano alludere ad un futuro di razionalità, di necessità d’una propria autentica razionalità per l’Africa. Si attua un’ ulteriore ampliazione, nel paesaggio tipicamente rustico di Casarola ( in cui implicito è il rimando a Casarsa): la Negritudine si profila come una forza nuova della ragione non solo per sé stessa, ma anche come già detto, in quanto richiamo per l’ Europa e per la sua necessità di rinnovamento, fondato sulla vicendevole conoscenza, non esente come principio lo scontro diretto.
L’ europa è così piccola, non poggia
Che sulla ragione dell’ uomo, e conduce
Una vita fatta per sé, per l’ abitudine,
Per le sue classicità sparute.
Non si sfugge, lo so. La Negritudine
È in questi prati bianchi, tra i covoni
Dei mezzadri, nella solitudine
Delle piazzette, nel patrimonio
Dei grandi stili – della nostra storia.
La negritudine, dico, che sarà ragione.
Dunque si riserva una comunicazione tra due contesti culturali fortemente intrisi della loro contestualità, così come vicendevolmente influenzati dalla necessità storica di un rinnovamento di pensiero e di eticità. In conclusione, quest’analisi svolta poggiando su questo doppio assetto di coppie concettuali, consente da un lato una costruzione a suo modo sistematica dell’eterogeneità su cui si fonda l’ atto poetico ed il discorso critico di Pasolini, dall’altro si ha una ricerca di valorizzazione degli aspetti assolutamente potenziali contenuti nel suo discorso.
Il messaggio ed il valore dell’ autore va posto in relazione al panorama mondiale ed attuale che viviamo quotidianamente, in un costante richiamo all’ esercizio, a ciò che lui stesso ammoniva come “paura della realtà”. L’ammonizione sta appunto nel dire innanzitutto che «non dobbiamo avere paura della realtà», procedendo con la stessa attenzione e fermezza con cui documentava il mondo, la sua nascita ed il suo disfacimento, nella ricerca agonistica di una possibilità di riscatto culturale e civile.
Un’operazione che potrebbe rivelarsi simile a quella di Jean Genet, poeta e regista impegnato sul medesimo fronte, con posizioni altrettanto radicali e controverse, in una prassi dagli atti impuri, osteggiata da qualsiasi istituzione, quanto sentita come un’imprescindibile richiamo per entrambi. Entrambi aventi come mezzo e come limite stesso il corpo, lo scontare sulla propria pelle le derive della storia. Come Gianni D’Elia sapientemente nota nel suo articolo Pasolini, un corpo chiamato linguaggio:
La poesia è, per Pasolini, il discorso del corpo vivo. Il discorso, e non il corpo (“E’ parola, non Carne…”, da un inedito del 1949). E’ in questa espulsione del corpo dalla scrittura che vive la parola poetica. È nella coscienza di questa espulsione che si riproduce la contraddizione insanabile del verso (che significa proprio spezzato, piegato). […].Per Artaud, Genet, Pasolini, la “poesia” ha significato il discorso del corpo vivo.[…] “Gettare il proprio corpo nella lotta” sta allora per “gettare il proprio corpo nel linguaggio”. È questo il vero scandalo, la pietra di eresia che fa uscire dalla rilettura dell’opera di Pasolini, al di la’ della stucchevole rappresentazione di “poesia civile” che gran parte della critica le ha assegnato con un convincimento opposto: si tratta della poesia meno “civile” che sia data nel Novecento, perche’ meno compromessa con qualsiasi mediazione mondana. La contraddizione corpo/storia è insanabile, come come uno stile da allucinazione del reale (“la realtà – l’irreale qualcosa”, dai Quadri friulani, altro che “realismo sociale”!). Si tratta di una poesia violentemente inclusiva dell’altro, che si sa per sempre cancellato, nell’atto stesso che lo si nomina: il corpo visivo. Ed è proprio il discorso del corpo vivo (che si sa in perenne scissione con l’essere del corpo) ad essere nella poesia di Pasolini continuamente evocato. Nella cultura, il rapporto tra segno e cosa prende l’aspetto del rapporto tra segno e segno: quest’ultimo esclude dal proprio sistema il corpo, la vita, la fisica tridimensionalità con cui lavora il cinema, tridimensionalità che lo stesso cinema, diventando scrittura riduce. È l’ossessione della “semiologia della realta'” e non della semiologia del cinema: la realtà è il linguaggio (il figlio è la madre?), è il linguaggio più grande, “la mia vera passione”.
Occorre inoltre dire che Genet e Pasolini si conobbero fugacemente, si stimavano reciprocamente: soprattutto Genet apprezzava la vitalità dell’autore nella sua opera poetica e cinematografica. Anche egli scorge delle riflessioni interessanti, occupandosi della questione del Terzo Mondo, fondando la sua critica su un presupposto tanto stringente quanto basilare e fecondo, il senso del mantenimento del potere. Le riflessioni potrebbero rivelarsi similari, come in questo testo contenuto nel volume Palestinesi, intitolato Conversazione a Parigi:
Voglio tornare sulla figura dell’occidentale o dell’uomo occidentalizzato che guarda dalla sua finestra, e sull’immagine del terzo mondo, al contempo sfruttato e osservato. Colui che osserva prova un sentimento di pace rassicurante, anche se un po’ sadico, non essendo lui il paesaggio, e non apparendoci dentro. È conservatore perché rifiuta che il suo paesaggio cambi forma o colore. Le sofferenze dell’oppresso danno colori vivi al quadro – o al paesaggio – contemplato dall’occidentale. Niente deve essere toccato, perché questo, sostiene il borghese, «rovinerebbe il paesaggio». È del suo paesaggio che si tratta. Se il paesaggio è un oggetto da sfruttare per chi lo contempla, si instaura pure un altro tipo di relazione. L’osservatore non è più soggetto passivo, ma attore del cambiamento del paesaggio, e questo cambiamento non può avere che uno scopo: produrre. Ciò che ho detto serve a dimostrare che un possesso passivo può perfino corrispondere a un possesso reale, a una prassi. Non appena l’occhio guarda, non appena prende piacere a guardare, vuole “preservarsi” l’immagine contemplata, prendendo possesso del paesaggio per conservarlo come semplice oggetto da guardare, proprio come il padrone vuole entrare nella sua proprietà con in testa una idea ben precisa di profitto. A nessuno piacerebbe essere il “paesaggio” di un prepotente. Uno sguardo soddisfatto di sé, uno sguardo che voglia cogliere le cose per la brama di possederle, è uno sguardo senza innocenza.
Questo problematico processo ci deve pur sempre rendere memori, oltre che nell’eventualità certamente problematica di un riassetto dell’ordine delle nazioni, del ruolo dell’Europa rispetto al mondo, al di là degli arrocchi diplomatici fatti passare per atteggiamenti esemplari, volti solamente al mantenere lo status quo di un potere realmente barbaro, quanto di facciata estremamente civile. Un potere tale nullifica ogni identità culturale che abbia il coraggio di preservare se stessa, senza ricorrere tanto a sclerotiche refrattarietà quanto ad abuliche aquiescenze. Occorre ricondurre alla storia ad una prefigurazione del presente che non sia “avida di fatti” come precedentemente sostenuto, ma che sappia carpire il senso di un conflitto e farsene voce critica, in mezzo all’informe ridda che sempre fondarsi sull’unica certezza di un grande errore del mondo, la distrazione come attenta perdita nell’episodico.
Come un’altra mente dei nostri tempi, controversa quanto blandamente osteggiata per il coraggio d’espressione del pensiero, quale Richard Millet, ci dice, che ” da quando noi europei siamo usciti dalla Storia per vivere non in un periodo post storico, ma al di fuori di questo contesto, in un’epoca dove la “non storia” si è rivestita della maschera del divertissement nichilista – poiché il peggio riguarda ora l’insignificanza letteraria, artistica, intellettuale e politica dell’Europa, assurgendo addirittura a velocità di crociera dell’intero occidente – gli eventi (perlomeno quelli che la stampa fino a poco tempo fa chiamava le “notizie” e che – assoggettandosi all’ordine linguistico mondialista che disgrega la lingua abbreviando le parole, rivedendole o sostituendole – ha ribattezzato le “news”) vengono resi noti rapidamente e dimenticati con la stessa velocità […]”.
Lo stato incombente di un problema ci è consegnato, senza apocalissi o integrazioni facili a dirsi, da autori che si potrebbero definire comodamente “avversi” come “avversati”, ma con fiuto altrettanto fraterno nel constatare un dissidio innegabilmente presente.
Dalla dissolvenza la nero (parte seconda). Alì e il pensiero selvaggio
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