“Barbarico”, Giovanni Lindo Ferretti

Il nuovo libro del noto artista convertitosi alla vita eremitica

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Davide-Tartaglia

Davide Tartaglia

 

di Davide Tartaglia

Inclassificabile. E’ questo il termine che più degli altri riesce a definire Giovanni Lindo Ferretti per quanto possa sembrare un’impresa ironica cercare di racchiudere l’ormai sessantenne cantautore emiliano in una sola parola. Barbarico, terza fatica editoriale di Giovanni Lindo Ferretti, non fa che confermarlo. Rivoluzionario lo è stato sempre: dagli anni ‘90, quando ha rivestito il ruolo di icona punk dissacrante per un’intera generazione, fino ad oggi che fa a pezzi l’immagine in cui era rinchiuso dedicando anima e corpo al silenzio del ritiro monacale della sua casa di origine a Cerreto Alpi:

“Non fare di me un idolo, mi brucerò / trasformami in megafono, mi incepperò”. Così cantava quasi 20 anni fa con i CSI.  Questi versi gli si sono incollati addosso diventando parola incarnata, vita.

Il libro sfugge a qualsiasi definizione di genere e più che un progetto si tratta della testimonianza di un uomo vivo, uno sguardo acuto e affilato sul mondo che sgorga da una posizione necessariamente al margine e che poggia la sua autorevolezza sull’esperienza di chi ha attraversato fino in fondo le battaglie ideologiche del secolo appena trascorso:

Affinando lo sguardo, circoscrivendo lo spazio del vivere quotidiano, ho perso sintonia con gli accadimenti che determinano la cronaca e il divenire del mondo. Non ne sento la mancanza. Eppure sono vivo, cosciente di quale dono sia vivere, so della necessità di renderne merito e dei doveri che mi competono.

Ciò che colpisce è proprio questa lucidità nell’osservazione degli eventi politici, sociali e di costume del nostro Paese, questa profonda cognizione del reale che smaschera in maniera impietosa il luogo comune che vede Ferretti relegato ad una sorta di atarassia bucolica totalmente staccata dal mondo. Quello di Ferretti è un punto d’osservazione sferzante, non ricattato dalla tiepidezza diffusa dei nostri giorni e che però in ultima istanza lascia sempre il posto ad una letizia di fondo, la letizia di chi ha toccato l’abisso ed è cosciente di essere stato salvato, di essere un reduce, come scrive nel suo primo libro. Ecco perché in primo luogo Barbarico è un libro onesto, capace di riconciliare proprio perché riconciliato. E non che manchi l’ardore, la ferita, ma emerge chiara la coscienza che c’è un momento della vita in cui lo scopo principale è l’azione, la lotta, poi viene un tempo in cui si ricorda, ci si racconta affinché l’ordito del vissuto risplenda in testimonianza:

Ricordare e pensare sono un unico verbo in diverse lingue e c’è un’età nella vita di ogni uomo in cui pensare è ricordare; altro è la giovinezza, la scoperta. Ciò che posso salvare dei miei anni è riducibile ad un operoso meditare il mistero della vita, la condizione umana, ma servirà un’Infinita Misericordia nel giorno del giudizio per salvarne l’equivalente di un granello di polvere.

In questo percorso Ferretti dunque si riappropria del proprio passato, quasi che il racconto assuma un valore catartico in cui le nubi pian

barbarico

la copertina del libro

piano si diradano e dalla matassa imbrigliata della giovinezza emerge il filo rosso di una vita di eccessi, di fughe e ritorni. Il ricordo riparte sempre da lì, da Cerreto Alpi, borgo di montagna arrampicato sul crinale tosco-emiliano che divide le acque e tutto ciò che cade come se tutto ciò che si è sviluppato nella vita di Giovanni Lindo Ferretti sia solo il racconto del movimento costante di allontanamento e riavvicinamento a questo punto:

Il mio spazio geografico si è ridotto, circoscritto al camminare. Una scelta di libertà e insieme un privilegio, ha a che fare con l’età anagrafica. Coincide con l’accettazione di un limite: questo è l’orizzonte in cui ho aperto gli occhi, questo mi è stato donato e ne sono responsabile […] Non è una fuga da qualcuno o qualcosa, tanto meno dal mondo, piuttosto il ricollocarsi nel proprio centro.

E’ nello spazio apparentemente angusto di un borgo di montagna lontano da ogni tipo di comodità, comunicazione che l’occhio si spalanca ad una nuova visione, che spazza la coltre dell’abitudine, del banale, per andare a schiudere al cuore ogni aspetto del reale. E’ dal seme incontaminato delle origini che sgorga la vera dignità dell’uomo, un autentico possesso delle cose. Il rapporto di Ferretti con i cavalli è l’esplicitazione fisica, carnale, di uomo che nuovamente si riappropria di sé stesso e quindi della realtà. Una realtà non più frammentata, esplosa, come quella che affiora a tratti nei ricordi degli anni giovanili, ma finalmente una realtà integra:

Tra la pretesa di una radicalità senza grazia e una volontà di potenza ormai disincarnata e immateriale i cavalli restano, per noi, immagine mutevole di grazia e di potenza.

Un’immagine di grazia integra, che assume nel libro la forma della parola. La parola ha sempre assunto un ruolo determinate nella vicenda artistica e spirituale di Ferretti che si autodefinisce residuo salmodiante che sussurra, modula, scandisce manciate di scongiuri, preghiere, invocazioni, ma mentre nei suoi anni di stravolgimento punk era l’altare sul quale sacrificare la vita, ora essa si piega dolcemente, a volte leggera, a volte più ritmata e frenetica ai tempi calmi scanditi della vita, del giorno, della preghiera. La struttura stessa del libro nella suddivisione in capitoli è ordinata dalla liturgia delle ore, confine certo dell’ultimo tratto di viaggio esistenziale. All’interno di questa struttura si sviluppa la scrittura di Ferretti, fedele servitore della parola. Una scrittura che procede a scatti, asciutta, la quale non si lascia corteggiare dal vezzo artistico fine a sé stesso, ma scava in profondità. In fondo l’incedere non è poi molto diverso da quello di Emilia Paranoica oppure di Io sto bene; ma mentre lo stato di agitazione, la frenesia sconvolta del frontman dei CCCP pietrificava la parola rendendola granitica, d’acciaio (in contrapposizione con la melassa melodica della sua generazione), ora c’è un ritorno alla radice della parola stessa, liberandola alla luce.

E’ in questo continuo lavoro, tra la stalla (la vita) e la lettura-scrittura, che – come un punto all’orizzonte – appare silenziosa la luce del vero, che ridisegna i contorni di ogni cosa: l’impegno politico, la resistenza, le vicende economiche, i grandi temi etici, il mondo della comunicazione fino alla figura materna, che ritorna frequentemente in diversi momenti del libro, quasi un fantasma (o un angelo) da cui Ferretti non riesce a liberarsi e che pian piano metabolizza in questa sorta di confessione fiume con il lettore, con il fan, e che di fatto diventa per lo scrittore la porta privilegiata per lo spalancamento alla vita. Invece, per noi, quest’ultimo lavoro di Giovanni Lindo Ferretti diventa l’occasione per godere dello spettacolo di un uomo che nell’apparente congedo dagli anni non più verdi, nell’uscita di scena e nell’accettazione totale del tempo che gli è concesso, riconquista la vera giovinezza, la vera letizia del vivere in un mondo in cui tutto ci spinge a scommettere sul contrario:

Muta il vivere dell’uomo in uno spazio di cui fruisce, gli è stato donato non gli appartiene, in giorni che gli sono concessi, un tempo bastante.

Che l’uomo, ogni singolo uomo in ogni situazione, operi il bene o pratichi il male, è l’unica variabile che fa la differenza.



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