Maledetti politici,
uccidiamoli tutti!

Censurare certi commenti? No, il fenomeno c’è e va portato alla luce. Anche perché la vera antipolitica sta nella politica

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liuti-giancarlodi Giancarlo Liuti

Cattiva notizia: a Corridonia un camionista rimasto senza lavoro tenta il suicidio impiccandosi a una trave di casa. Buona notizia: avvertiti dalle figlie i carabinieri intervengono subito, sfondano la porta, tagliano la corda di plastica che lo sta strangolando, chiamano il 118, l’ambulanza lo porta a sirene spiegate in ospedale e, in extremis, gli viene salvata la vita (leggi l’articolo). La prima notizia appartiene a una serie che purtroppo è in aumento, con persone di ogni ceto che messe sul lastrico dalla crisi si consegnano alla tragica scelta di farla finita. La seconda rivela che in questa nostra vacillante società qualcosa, nonostante tutto, funziona. E’ un motivo di conforto? Lo è. Significa che possiamo ancora contare su servizi pubblici e di volontariato pronti a occuparsi della nostra sicurezza e della nostra salute.

Non è di questo, comunque, che intendo parlare, ma di alcuni commenti che Cm ha ospitato in appendice alla cronaca dell’episodio di Corridonia. Eccone uno: “Santo subito chi entra in Parlamento e fa una strage! Devono morire tutti, da destra a sinistra, branco di ladri, porci, infami, assassini!”. E un altro, sempre rivolto ai politici: “A morte! Ci stanno mangiando le interiora e glielo lasciamo fare!”. E un altro, con gli stessi destinatari: “Se si prendono qualche pallottola in testa, se la sono meritata alla grande!”. Che dire? E’ triste constatare che un nobile moto di solidarietà umana verso quel camionista possa degenerare in una ben poco nobile violenza verbale di stampo quasi terroristico contro coloro – i politici – ai quali si attribuisce il crimine di aver causato la mancanza di lavoro e la conseguente disperazione esistenziale che a volte, ma sempre più spesso, porta oggi al suicidio.

Ebbene, mi chiedo se è giusto che Cm dia spazio a questo genere di reazioni. E pur dissociandomene in modo totale mi rispondo che è giusto. Perché nella loro somma sgradevolezza esse esprimono un sentimento d’indignazione e di collera che ormai ha le caratteristiche di fenomeno sociale ed esercita un peso significativo sul presente e sul futuro della nostra democrazia (si pensi agli apocalittici proclami di Beppe Grillo, in cui la cipria della comicità non nasconde una cieca veemenza aggressiva, con sondaggi che sfiorano il 7 per cento). Perciò non invoco censure. Anzi, ritengo utile e al limite necessario che in sella al galoppante cavallo dell’informazione on line questo giornale faccia emergere le pulsioni, anche le meno condivisibili, che esplodono – e qualche ragione ci sarà – dalla coscienza della cosiddetta gente comune. Che poi, Costituzione alla mano, sarebbe il popolo sovrano.

Dobbiamo allora rassegnarci alla libera uscita di viscerali auspici di morte? Non me ne rassegno affatto. Ma la soluzione non sta nel tenerli nascosti, nell’imporre il silenzio, nel turarsi le orecchie, nel metter la testa sotto la sabbia, nell’appellarsi alla buona educazione o al codice penale. Al contrario, come per qualsiasi malattia, e specialmente se ha l’estensione di un’epidemia, la soluzione non sta nel soffocarne i sintomi e farla covare come brace sotto la cenere, ma nel prendere atto del suo manifestarsi, nell’indagarne le cause, nel trovarne le terapie. Fuor di metafora butto là una provocazione: se è riprovevole che si chieda lo sterminio dei politici d’ogni colore, non sarebbe il caso che i politici d’ogni colore cercassero di dimostrare di non meritarselo? La qual cosa, purtroppo, non avviene. E, per citare un esempio fra cento, metto insieme sia il vecchio imbroglio dei rimborsi elettorali moltiplicati per mille sia le nuove manfrine per evitare di pagarne lo scotto.

Attenzione: la crisi economica mondiale non è stata determinata dalla politica italiana (s’usa dire che per far calare la borsa di Milano basta un battito d’ali di una farfalla a Singapore e Mario Monti, ahinoi, non possiede una retina acchiappafarfalle da usare a Singapore). E i modi per venirne fuori non stanno in Italia ma in Europa e negli Usa. Ed è mera illusione credere che il nostro Pil crescerebbe se i politici, come peraltro sarebbe sacrosanto, rinunciassero a certi privilegi. Ed è illusione ancor più mera credere che la politica migliorerebbe in trasparenza e in legalità se i suoi costi – ci sono, altroché se ci sono! – fossero sostenuti esclusivamente dai privati (via, conosciamo l’idea di “bene comune” che alberga nelle lobby, nelle corporazioni, nelle consorterie, nei meandri della finanza e, lo si ammetta, nei più disparati settori della società civile).

Tutto questo è lampante e dovrebbe essere fuori discussione. Eppure milioni di persone lo ignorano, si astengono dal riflettere sui guasti di un generale modello di vita imperniato sul denaro e sul più sfrenato degli individualismi, si autoconvincono che la colpa della chiusura delle aziende, della disoccupazione, della povertà e dei suicidi stia solo – e in toto – nella politica. Che fanno, però, i nostri politici? Benché sostanzialmente innocenti rispetto alle reali e profonde cause della crisi, continuano a seminare prove di colpevolezza su altri fronti – corruzione, concussione, arricchimenti personali, tangenti, favoritismi di casta, oscure contiguità con le mafie – e in tal modo finiscono per apparire artefici d’ogni male, anche dei gravissimi disagi derivanti dalla depressione economica dell’intero Occidente.

Ma a chi, se non a loro, tocca il dovere di adeguarsi ai mutamenti epocali imposti dalle moderne tecnologie dell’informazione che scoprono tanti altarini, tirano fuori tanti scheletri dagli armadi e rendono sempre più pressante e severo il pur magmatico e disorganico giudizio dei cittadini sull’andamento delle pubbliche cose? A chi, se non a loro, tocca il dovere di capire che un certo modo di gestire i partiti non regge più all’incalzare dei tempi, come nel piccolo mondo maceratese dimostrano le assemblee dove qualcuno recita il logoro ed evasivo breviario del politichese, una mesta platea di venti iscritti lo ascolta annoiata, alla fine c’è un gelido applauso di circostanza e tutti tornano a casa col rimpianto di essersi persi un programma televisivo di Carlo Conti, Maria de Filippi o Ilary Blasi?

Anche nel 1946, subito dopo la guerra, l’Italia era messa malissimo. Certamente peggio di adesso. E Guglielmo Giannini fondò l’Uomo Qualunque, un movimento che si scagliava contro la politica e contro i partiti (“Fuori dalle palle! Alla guida del governo basta un semplice ragioniere!”). Ebbe subito successo, tanto che alle elezioni per la Costituente ottenne più del cinque per cento dei voti e fece eleggere trenta deputati. L’odierno movimento delle “5 Stelle” non è molto diverso, anche perché Giannini, pure lui uomo di spettacolo, non era dissimile da Beppe Grillo nell’uso della battuta di facile presa sulle folle. Diversa, invece, era la politica. E diversi erano i partiti, che rispetto a quelli di oggi la lotta antifascista aveva reso più seri, più motivati, più lungimiranti e più consapevoli delle loro alte responsabilità anche ideali. L’urto con leader del calibro di De Gasperi, Togliatti, Nenni, Einaudi, La Malfa e Saragat fu, per Giannini, fatale. Nel 1948 l’Uomo Qualunque perse voti e l’anno dopo si sciolse. Demerito suo o merito, allora, della buona politica?



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