di Mario Monachesi
I contadini di una volta, non avendo ne tempo ne tanti mezzi a disposizione per spostarsi dai campi dove lavoravano sodo dall’alba al tramonto, erano usi ricevere su “l’ara de casa” le attese e gioiose visite “de lu pellà, de lu feraccià, de lu callarà, de lu crastì, de l’oarolu, dell’ombrellà, de lu rutì, de la materazzara, de lu cordà, de lu pesciarolu, de lu camiuncì de quillu che vinnia le stoffe, de lu camiuncì de quillu che vinnia ‘n po de generi alimentari, de quillu che comprava lo seme e, d’istate, de la cappellara”. Di quest’ultima abbiamo già parlato mesi addietro (leggi l’articolo). Ad ogni arrivo di questi personaggi, specialmente per i più piccoli, era una festa. Per loro si illuminava un mondo di sorprese, a volte di colori, a volte di sapori, sempre di meraviglia. Vivevano una gioia semplice ma sicuramente di euforia. I grandi badavano al sodo, a tentare l’affare dia se acquistavano, sia se vendevano. Anche pochi spiccioli, risparmiati o guadagnati, erano importanti per l’economia della famiglia.
Lu pellà. “Rcujia le pelle de li cunelli” (pelle dei conigli) e “le piumme d’oca”. Le prime le sistemava sul piccolo portapacchi posteriore del motorino, le seconde in un sacco che poi legava sopra alle pelli. Il tutto lasciando pochi spiccioli alla vergara o, a volte, ai ragazzini, che erano i più attenti a volerle vendere. Quando c’erano, raccoglieva anche “li stracci”, consunti pezzi di stoffa, non piu rattoppabili maglie, “carzitti”, ecc ecc.
Lu feraccià. Arrivava tirando un vecchio caretto o, piu avanti, guidando una malandata “Apetta”. Caricava tutto il ferrame oramai inservibile, da arrugginiti pezzi di fil di ferro, a lamiere, a vecchi cerchi di botte, a qualsiasi altro pezzo ferroso abbandonato in cantina, “dentro la cappanna” o “su lu pratu”. Anche qui gli spiccioli guadagnati dal contadino non erano molti.
Lu callarà. Arrivava con la cavalla o a piedi. Aggiustava “callà” (paiuoli) e anche piatti. Di quest’ultimi rimetteva insieme i pezzi con del fil di ferro fatto passare attraverso dei buchi che con un piccolo trapano a mano aveva precedentemente fatto. Non veniva certo una bellezza di lavoro, ma all’epoca in campagna, tanta era la miseria, non si buttava via niente. Tutto doveva durare il più possibile. (“Vaccili ‘n po’ a fa’ magnà’ ogghj, a li fiji, su ‘sti piatti…prima te li rtira su lu musu, po’ te denuncia).
Lu crastì. Castrino o castratore di animali. “Sanava” (appunto, castrava), maialini e “puji”. Il tutto “pe’ non falli fijà” (riprodurre) e lasciarli crescere di peso. Per la riproduzione, “de ‘na cotta intera” se lasciava un maschju e ‘na femmena, il resto diventavano bei prosciutti, salami e salsicce e bei “cappu” (capponi) per brodo e carne gustosa. Al termine dell’operazione, la vergara portava “a lu crastì, un vaccile (bacinella) d’acqua, ‘na saponetta e u’ sciuccamà” per lavarsi bene le mani da ciò che aveva toccato.
A Madonna del Monte, per questo compito, passava “Palummì de Morovalle”. Oggi, per fare i capponi, molti chiamano il risolvibilissimo “Dumi de Mattiacciu”.
L’oarolu. Arrivava con un’apetta o, con una Giardinetta, in cui sistemava le uova che acquistava dalla vergara, nel frattempo giunta “co’ la pannella pjina”. In contrada Fontelepre di Corridonia, passava tal Armindo che. oltre ad acquistare uova, vendeva “sardelle e ‘renghe” (aringhe).
L’ombrellà. Aggiustava a domicilio gli ombrelli, riparando stecche e rattoppando il tessuto cerato. Si portava da una casa all’altra, qua di srmpre con la bicicletta. A volte i adoperava ad aggiustava anche le “seje de paja”.
Lu rutì. Si affacciava sulle aie a bordo di una bicicletta, o motorino, su cui aveva montato una mola per l’affilatura di coltelli e altre lame. Passava dai semplici coltelli, “a li mannarì, a li cortelli pe’ scannà’ li porchi e a quilli pe’ la pista”. Le scintille che provocava la lama a contatto con la mola, era un sublime ed incantato spettacolo per i ragazzi.
La materazzara. Di solito un’attempata signora che, chiamata, veniva a casa a “fa’ o rfà’ lu matarazzu” , quando questo era di lana. Quelli “de sfoje” lo riaggiustavano le vergare, appena venuti “di moda” quelli di lana, ecco l’utilità “de la materazzara”. I primi, per non spendere troppo, vedevano la lana unita al crino, successivamente solo di lana. Ogni tre o quattro anni, la “materazzara” tornava per sfasciarli, rinfrescare la lana e rifarli. Nella zona di Madonna del Monte, la “materazzara” era “Marì de la mulinara”.
Lu cordà. Arrivava quando chiamato. “Li contadì’ mittia la canepa”, una volta matura, la tagliavano e la sistemavano a bagno lungo fossi o pantani. Macerata al punto giusto, la battevano con i bastoni per eliminarne la corteccia. A lavoro ultimato “lu cordà’ ce facia le corde”. Siccome era un lavoro abbastanza lungo, a mezzogiorno, la famiglia ospitante “je passava un piattu de quello che c’era per magnà”.
Lu pesciarolu. Arrivava con il motorino carico posteriormente di cassette. Portava “le panocchje, le seppie, li cucciulitti, le pesciotte da fa’ arustu su la raticola” e poco altro. La vergara comprava quello che costava di meno e ci si poteva mangiare di più. Nella zona di Madonna del Monte passava “Anito de Porto Recanati”.
Lu camiuncì co’ le stoffe. Aveva rotoli di ogni tipo di stoffa. Per “zinali, vestaje e pannelle pe’ le donne, pe’ camiscie e carze (pantaloni) pe’ l’ommini”. Aveva anche “lu pannu pe’ lu corredu de le vardasce”. Di solito passava ad ogni inizio stagione. Il territorio di Villa Potenza e contrade limitrofe era servito da “Pacì”, prima il padre poi il figlio.
Lu camiuncì de lo magnà (generi alimentari). Appena parcheggiato sull’aia e aperto lo sportello, usciva un profumo di cose buone e sognate. Vendeva pasta, mortadella, prosciuttella, tonno, vaccalà da mette a bagnu, zucchero, banane, marmellate, cioccolata e tanti altri golosi prodotti. I ragazzini facevano ressa per avere magari un lecca lecca o un formaggino “Mio”. Tra Montelupone e dintorni passavano “Marcucciu” (Meschini) e “L’usemà (Osimani).
Quillu che rcujia (comprava) lo seme. Con un vecchio furgone acquistava “lo seme de zucca (quella per i maiali, che i ragazzi “rcapavano” e mettevano al sole ad asciugare), dell’erba melleca (medica), de la sulla (erba lupina, da foraggio), de lo trifojo”. Nel maceratese passava tal Otello.
Di tutti questi arrivi, come già detto sopra, sempre attesi e festosi, uno solo faceva paura ai ragazzi e metteva un po di ansia ai grandi, l’arrivo degli zingari. Al tempo numerosi e a bordo di carretti trainati da un cavallo o cavalla. I bambini fuggivano e gli adulti stavano attenti alla casa e alle galline. Quest’ultime non era raro vedersele rubate. Ricevuto un pezzo di pane e un po di vino, riprendevano la strada verso il loro racimolare cibo e quant’altro. Insomma da vivere…
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Tempi duri, ma beati; di profonda semplicità e umanità.