di Filippo Davoli
Sebbene nel 1921 la prima opera lirica rappresentata allo Sferisterio fu proprio un’Aida, gli appassionati e i musicologi sanno sin troppo bene che lo spazio acusticamente perfetto dell’arena maceratese supplisce meglio che può ad un golfo mistico sottodimensionato per un allestimento verdiano. Senza tralasciare i rischi di scivolare nel retorico (quando non addirittura nel ridicolo) di una scenografia altisonante e di una comparseria numerosissima a fronte di un’orchestra così minuta. Guasti – quelli di puntare, appunto, su “ciò che si vede” più che su “ciò che si suona e si canta” – che lo Sferisterio ha conosciuto in tempi passati; ottimi argomenti per attirare l’attenzione, tuttavia poco funzionali nei riguardi dei cultori più smaliziati. Ai nostri giorni, poi, ci si mette pure la crisi, a rendere più complicata una manovra di quel genere.
È il caso di questa Aida che inaugura la 50esima Stagione lirica dello Sferisterio, per la regia di Francesco Micheli. Il quale – ben consapevole delle facilissime scivolate che il capolavoro verdiano può procurare in un grande teatro all’aperto che tuttavia è piccolo, come quello dello Sferisterio – si risolve di mettere in scena un allestimento essenziale ma di fortissima caratura simbolica, scegliendo coraggiosamente di giocare Aida sulla parola più che sui figuranti; e sul segno grafico più che sui costumi.
Ma sbaglierebbe chi dicesse di trovarsi di fronte ad una rivisitazione in chiave moderna: tutt’altro! L’Aida micheliana è più classica che mai; diremmo piuttosto a completo servizio della partitura, sottolineata (per una volta, finalmente!) nei suoi snodi più drammatici e interiori, grazie anche ad una sapiente direzione d’orchestra come quella di Julia Jones.
Una regia (in simbiotica combutta con la scenografia, firmata da Edoardo Sanchi) che è un invito a riflettere, a sviscerare da dentro il Verdi che non sospettavamo, moderno e tragico, solenne e amaro, innamorato e disarmante, mai retorico. Un Verdi che supera d’un sol balzo le peraltro inconfondibili piste romantiche per consegnarsi ad un’umanità nuda e indifesa, circolante su sé stessa, come nella spirale che a un certo punto della scena sembra involvere e disinnescare i piani e le speranze dei protagonisti. Una spirale proiettata sul piano scenico a mo’ di disegno esile e incerto (ma quanto determinante, a ben considerare…).
Eccola dunque, l’Aida di Francesco Micheli, destinata – è dato credere (e anche sperare) – a diventare un piccolo cult, un’educatissima genialata, in cui sulle prime si trattiene il respiro perché gli etiopi sono di carnagione bianca; i ballerini che inneggiano alla vittoria somigliano agli insetti fastidiosi di certe pubblicità, con quei caschi che ricordano le teste delle mosche; il coro è un corpo di cariatidi bianche da capo a piedi, alienanti-alienate sui loro schermi (tavolette runiche? O personal pc?). Ma non c’è invasività, non c’è rottura: si tratta di elementi dell’attualità che entrano silenziosamente nel passato passando dall’interno, senza appariscenze: un nostro presente che incombe sull’attualità di allora, che la invade e la incarna, grazie anche ai richiami forti del libretto, proiettati ai lati estremi del muro di fondo. A quel punto non serve che Aida sia coperta di cerone dalla testa ai piedi: qui va in scena l’anima.
E c’è la gloria transeunte del mondo, che scende dal suo schermo luminoso e scivola addosso ai protagonisti, quasi li accartoccia su di sé, li scuote e li svuota, li spegne, li costringe a ridiscutersi senza il tempo di poterlo fare compiutamente; li piega nel suo destino, indotto e tuttavia inesorabile. Questo si capisce: è Verdi ad essere moderno! Non serve un allestimento ambientato ai giorni nostri, per far finta di essere nei nostri giorni; Verdi c’è già, nei nostri giorni: in come disseziona i sentimenti, in come risveglia i dilemmi servendoli con una delicatezza tenerissima e tuttavia spietata sul grande piatto della vita. L’arte, insomma, parla sempre, arriva sempre. Non serve la cronaca, come un paparazzo; non ne ha bisogno. L’arte si rivolge alla storia, all’uomo in quanto tale. E un allestimento come quello di questa Aida riesce nell’intento di rendere giustizia a un’opera bellissima proprio per questi suoi aspetti, troppo spesso sottovalutati.
Sì: è uno spettacolo da non perdere assolutamente. Ottima, come dicevamo, la direzione di Julia Jones, che ha sposato la partitura originale di Verdi scevrandola di certe cattive abitudini nazional-popolari e rendendola anch’essa nel suo primigenio fulgore. Notevole anche la decisione di eseguire l’intera opera in due soli atti: se ne avvantaggia la concentrazione e se ne snellisce la durata.
Quanto ai cantanti, segnaliamo un’eccellente Sonia Ganassi-Amneris (costretta a un certo punto, per esigenze sceniche, a cantare anche a testa in giù, ma sempre brillante e sicura) e un cristallino Sergio Escobar-Radamès; pienamente convincenti anche i ruoli cosiddetti minori (Amonasro, Ramfis, il Re, fino ad una voce che conosciamo in ruoli di ben altro spessore, quella del tenore Nazzareno Antinori, qui relegata – per sua scelta – nel personaggio del messaggero). Forse l’interprete che meno abbiamo sentito a suo agio è stata proprio Fiorenza Cedolins-Aida. Ma intendiamoci: siamo comunque ad ottimi livelli.
Per poter lasciare o votare un commento devi essere registrato.
Effettua l'accesso oppure registrati