di Remo Pagnanelli
Avevo pensato, per un eventuale saggio sulla poesia di Fiorentino, ad un titolo che tenesse conto delle varie componenti che la suggellano e del risultato che questa poesia raggiunge, cioè la dialettizzazione critica e armonica di aspetti sovente antitetici, in una parola, ad un titolo che risultasse il peso di una ostinata e commossa presenza. Per questo mi era venuto in mente: concomitanze e rinvenimenti critici nella poesia di Luigi Fiorentino. Mi sono subito accorto che si trattava di una dichiarazione troppo specifica e specificante e che, pur centrando la poetica del nostro, andava subordinata all’esigenza ormai improrogabile di una “sistemazione”, senza formule sclerotizzanti, per un lavoro che ha attraversato e ha superato stagioni fondamentali della nostra lirica e che si pone per la distanza che ci divide dalle prime prove (Voci nell’ombra, 1940; Cielo stellato, 1942; Scalata al cielo, 1948) nella necessaria misura per una giusta valutazione, rassicurante quasi per il critico che tenti un’ardua, se non impossibile, quando si parla di poesia, stodia di una vicenda umana e artistica. Mi è sembrato in sostanza, forse superbamente, di essere arrivato al momento giusto. Il critico è spesso tentato dall’idea di sbarazzarsi di un autore dentro una casella ma il pericolo della crestomazia è uno stimolo fruttuoso per chi non voglia cadere nelle secche dei regesti e delle notazioni erudite. A questo proposito le argomentazioni di Blanchot ci convincono ogni giorno di più nel senso che il poeta non finisce mai di scrivere il suo libro, anzi se lo porta dietro e lo incrementa fino alla morte. L’idea di un organismo per così dire “eracliteo” non può non suggerirsi anche per la poesia di Fiorentino, la quale accerchiata e spinta dalla storia ha saputo rinnovarsi mantenendo inalterate le sue qualità fondamentali. Si parla di quello che una volta era denominato lo “stile”: lo “stile” di Fiorentino è e non può non essere essenzialmente dinamico, oscillante tra le seduzioni poetiche di una cantabilità a volte eccessiva e la prosa della storia, affrontate e risolte nel superiore ma non per questo meno umano destino “classico”. Quindi si può ben dire che il fascino di questa poesia risiede nello sforzo di definirsi come momento di ricomposizione e di riconciliazione del reale. Poesia come documento del vissuto ma anche conoscenza attraverso il segno della parola e speranza di redenzione e di rinnovamento.
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Il fatto è che questa poesia ci impone una resa di conti, parziale quanto si vuole, ma per certi aspetti abbastanza sicura e circoscritta, dato il suo carattere perentorio e fortemente originale, anche se l’itinerario di Fiorentino alla luce delle ultime prove non può dirsi affatto concluso ed anzi rivela delle sorprendenti novità. Avevamo parlato di concomitanze e non a caso perché in una poesia siffatta l’autore riesce nel migliore dei casi a dipanare la materia dai diversi strati di cui è composta; sceverare i dati del processo di sedimentazione e addizione che sovrintendopno tale poesia significa avere la possibilità di ricostruire i passaggi e i gradi a cui è giunto (o non è giunto) il poeta, significa rifare con lui la strada, per desumerne, nonostante il testo ci appaia ogni volta di più che lo si affronta non mältrisable in banali definizioni, mentre è per lo più godibilissimo per il lettore, le costanti e in definitiva la poetica. Beninteso giova subito ricordare che le concomitanze rinvenibili nel corpo della poesia di Fiorentino lo legano a tutta una ben determinata situazione della cultura italiana e ai suoi sviluppi: ci sembra inutile ricordare che Fioroentino pur nella sua indipendenza non rimane un caso isolato ma insieme ad altri della sua generazione (Sinisgalli, Sereni) controlla un suo difficile rapporto con la storia ed infine lo risolve senza eluderla sotto il segno dell’etica. Tentiamo così di liberarci da un equivoco che per troppo tempo ha gravato e ha relegato talune personalità (Caproni, Penna) in una presunta e quanto mai falsa isolatezza e lontananza e che invece è bene reinserire in una complessa ma altrettanto logica temperie. Fiorentino è perfettamente assimilabile a tale situazione (la stagione postermetica), malgrado la sua costante aspirazione e ispirazione classica lo inducano all’uso di riconoscibili cadenze e ritmi della nostra più elevata tradizione. Compito di questo saggio è tra l’altro rigettare l’ipotesi di un classicismo decoroso e metastorico che per nulla si preoccupa della contemporaneità, per ritrarsi nel suo territorio a crescere su di sé impossibili miti e metafore. Cosa c’entri la classicità con le novità della poesia nuova e le conclamate aspirazioni di rottura col passato del Novecento è presto detto. È da rigettare l’idea che il fenomeno più marcato degli anni della formazione di Fiorentino, cioè l’ermetismo, coincida e si voglia porre come la nuova classicità. In questa direzione poco aderente all’umano, il classicismo è veramente estraneo alla poesia del nostro. Piuttosto è vero che là dove il classicismo si dichiara ultimo mito di perennità e di canto non ci sentiremo di contraddirlo. In effetti un ben strano destino pesa sul Novecento, che da una parte vuole tagliare tutti i ponti e dall’altra si propone con rigide normative, sovente velleitarie. Dice bene Solmi riassumendo l’argomento:
Il paradosso della lirica moderna sembra consistere in questo: una suprema illusione di canto che miracolosamente si sostiene dopo la distruzione di tutte le illusioni.
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Il presente saggio di Remo, qui in estratto incompleto, era apparso nella rivista “Otto/Novecento” – anno IV – n.1 – gennaio/febbraio 1980. Rarissimo da trovare, si tratta del primo intervento critico del nostro, allora venticinquenne, in rivista. Sorprendente come, alla pur giovane età, Remo mostrasse già la lucidità, l’onestà e la puntualità d’indagine che gli abbiamo riconosciuto nella (giovane) maturità e che rimangono – a ventisette anni dalla morte – un baluardo della critica italiana.
Remo Pagnanelli, poeta e critico letterario tra i più complessi della sua generazione, nasce a Macerata il 6 maggio 1955, dove muore il 22 novembre 1987. Nel 1978 si laurea cum laude in Lettere moderne con una tesi su Vittorio Sereni. Nello stesso anno esordisce come poeta con la plaquette Dopo, cui fanno seguito nel 1984 Musica da viaggio, nel 1985 Atelier d’inverno e il poemetto L’orto botanico, per il quale è tra i sei giovani poeti vincitori del premio di poesia internazionale “Montale 1985”. Vengono pubblicati postumi l’ultima raccolta di versi Preparativi per la villeggiatura ed Epigrammi dell’inconsistenza. L’opera poetica di Pagnanelli è stata raccolta nel volume complessivo a cura di Daniela Marcheschi Le poesie. In ambito critico nel 1981 ha pubblicato La ripetizione dell’esistere. Lettura dell’opera poetica di Vittorio Sereni e nel 1985 Fabio Doplicher. Nel 1988, postumo, è uscito il suo lavoro più impegnativo, Fortini. L’intenso impegno nell’ambito della critica letteraria e della teoria della letteratura è documentato da innumerevoli saggi, studi e recensioni su poeti e scrittori anche non contemporanei, pubblicati su riviste specialistiche. Parte dei saggi pagnanelliani sono stati raccolti da Daniela Marcheschi nel volume postumo Studi critici. Poesie e poeti italiani del secondo Novecento. Alcuni studi sull’estetica e sull’arte sono confluiti nel volume Scritti sull’arte, uscito in occasione del ventennale della scomparsa. È in corso di pubblicazione il lavoro inedito su Sandro Penna. L’intero corpus documentario di Remo Pagnanelli (dattiloscritti, manoscritti, epistolario) è depositato presso l’Archivio contemporaneo Bonsanti – Gabinetto Scientifico-Letterario G. P. Vieusseux di Firenze.
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