di Mario Monachesi
Il vino cotto è una bevanda tipicamente marchigiana (per certi versi anche abruzzese). La sua diffusione in loco tocca la collina maceratese, particolarmente conosciuto è “lo vi’ cotto de Loro Piceno”, borgo in cui da 47 anni vi si tiene una importante sagra e dove, nei locali adiacenti il chiostro della chiesa di San Francesco, vi ha sede il museo degli attrezzi utilizzati per la realizzazione del vino cotto.Questo accattivante prodotto nasce da quelle zone dove era difficile vinificare con il sistema tradizionale perché difficilmente le uve maturavano in modo sano e il più delle volte si ottenevano vinì di scarsissima qualità e, in breve tempo, diventavano aceto, quindi imbevibili. La necessità di avere un vino conservabile ha perciò reso necessaria ed urgente la sua trasformazione. Furono gli antichi Piceni a ereditare dai Sabini questa tecnica di trasformazione che permetteva di ottenere un vino concentrato e stabile. La sua produzione non richiedeva uva pregiata, anzi si mescolavano insieme uve bianche e nere di diversi vitigni, il Galloppa, Chiapparone, Uva del cane, Maceratino, più tardi si sono aggiunti Sangiovese, Montepulciano, Pecorino, ecc.
Nella storia antica i Greci indicavano l’Italia con l’appellativo di “Enotria”, terra del vino. Nel 191 a.C., Plauto, nella commedia “Pseudolus” include il vino cotto tra le migliori bevande da “mescersi in lauto banchetto”, ritenendola la più ricercata. Il condottiero cartaginese Annibale, nella guerra punica contro i Romani, in una sosta rifocillò cavalli e soldati con il vino cotto.Nel 1534, Sante Lancerio, bottigliere di Papa Paolo III, menziona il vino cotto dell’area Picena, esaltandone la bontà e la qualità ed elevandolo alla dignità del rito della Santa Messa. Lo stesso Paolo III lo definì “Una grande cosa”. Nel 1596, Andrea Bacci nel suo testo “De Naturali vinorum historia di vinis Italiae” descrive positivamente il vino cotto. Rivale del marsala e altri vini pregiati, concludeva i pasti dei patrizi romani e degli imperatori. Era il loro vino più gradito, al pari del “Passum” (passito) o del “Vinum conditum”.
Come si ottiene il vino cotto? Una volta pigiata l’uva, il mosto ricavato si mette in un caldaio di rame, con l’avvertenza tramandata dalla tradizione, di porvi una verga di ferro nudo per impedire al rame di entrare in soluzione. Nel caldaio il mosto viene cotto a fuoco vivo fino a quando l’evaporazione non porti il contenuto a ridursi di un terzo o la metà. Per regolarsi meglio, lo si fa bollire fino a quando una goccia, depositata con una pagliuzza sull’unghia del pollice, non si ferma, cioè non raggiunge la densità richiesta. Nelle nostre zone c’è chi nella bollitura aggiunge una mela cotogna per ogni quintale di mosto, allo scopo di aromatizzare la bevanda. Non appena raffreddato, il mosto viene rimboccato in botti di rovere ove è lasciato a fermentare. A fermentazione alcolica avvenuta viene trasferito in un contenitore in cui è già presente il vino cotto degli anni precedenti. Molto importante sarà il suo lento e lungo invecchiamento, evitando forti ossidazione. Nel 1° secolo d.C. Columella, nella sua opera “De Agricultura”, libro XII, scrive: “…fino a diminuzione di un terzo si cuocia del mosto di sapore dolcissimo; quando è cotto si chiama “Defruntum”. Esso appena raffreddato si trasferisce nelle botti e si ripone per usarne”.
Scriveva Plinio: “…cotto quando la luna non si vede”. “Lo vi’ cotto” è anche chiamato “Occhju de gallu” per via della tonalità giallo ambrata con sfumature che tendono al nocciola, dall’ambrato al rubino, fino al granata. Il suo profumo è fruttato, il sapore dolce e gradevole, con punte di acidità. Il grado alcolico si aggira intorno ai 14 / 15 gradi.
Scriveva ancora Plinio: “…i cotti hanno il sapore loro e non quello del vino”. In tempi più recenti questo tipico prodotto campagnolo viene esaltato da Consolo nel “Dizionario del Gourmet”, dal Bruni nel “I vini d’Italia”, dal giornalista e scrittore Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia”. Si sono espressi a favore anche Stefano Zaccone e Luigi Veronelli nel “Libro dei vini”. Nel 1971, Mario Soldati nel suo libro “Vino al vino” narra: “Di un bel colore rosso mattone a riflessi d’oro cupo, il sapore strano, affumicato e ruvido della sua moderata dolcezza corregge ed evita quella dolcezza vischiosa e a volte nauseante di tanti passiti e “marsalati”. C’è qualcosa di affascinante, di profondamente rustico e montano, nel vino cotto”.
Nel 2000 viene inserito nell’elenco nazionale dei prodotti tradizionali. Nel passato l’uso del vino cotto non si limitava all’aspetto culinario, ma aveva anche effetti medicamentosi: bevuto sia caldo che a temperatura ambiente, era un toccasana per raffreddore, tosse, mal di gola, dolori articolari e benefico per regolare la circolazione sanguigna. Usava massaggiarlo sulle braccia e sulle gambe dei bambini piccoli, per far si che gli arti crescessero forti. In campagna veniva bevuto durante i lavori più pesanti per recuperare forza ed energia. Oggi si accompagna benissimo con formaggi stagionati, insaccati, alcuni tipi di frutta come le castagne. Eccellenti sono le grigliate di salsicce al vino cotto e i tanti dolci preparati con il suo inconfondibile aroma: ciambelline, biscotti, torte.
Ricetta per 40 biscotti al vino cotto.
Ingredienti:
500 g.di farina, 135 ml di vino cotto, 125 ml di olio di semi, 150 g. di zucchero, mezzo cucchiaio di semi di anice, 8 g. di lievito in polvere per dolci, un pizzico di sale fino.
Preriscaldare il forno a 180° e mettere i semi di anice ad ammorbidire nel vino cotto. Setacciare la farina con sale e lievito, aggiungere zucchero e disporre sulla spianatoia a fontana. Al suo centro aggiungere olio e vino cotto. Impastare energicamente. Dopodichè con un po’ di impasto alla volta ricavare delle striscioline lunghe 15 / 20 cm e unire a cerchio le due estremità. Immergere da un solo lato nello zucchero e cuocere per 25 / 30 minuti.
Un’ultima curiosità. Quest’anno per omaggiare la maceratese festa di San Giuliano, un dipinto dell’artista corridoniana Gabriella Cesca, è stato scelto dal Cif (Centro italiano femminile) e dal maestro Silvio Craia, come etichetta per il vino cotto dell’omonimo santo. Le bottiglie saranno in vendita da giovedì 30 agosto in piazza della Libertà sulla bancarella dello stesso Cif.
Per poter lasciare o votare un commento devi essere registrato.
Effettua l'accesso oppure registrati
il VINO COTTO lo beveva pure Carlo Magno… mentre pasteggiava con i prodotti agricoli che faceva coltivare nelle sue terre… I prodotti delle sue terre son o elencato nel suo CAPITULARE DE VILLIS. Alcuni di questi prodotti agricoli si potevano coltivare sono nella vallata del Chienti ed anche in altre zone d’Italia a clima temperato e non nelle fredde lande di Aachen, in Germania, dove gli interessi tedeschi, da Federico Barbarossa ad oggi, collocano come l’Aquisgrana di Carlo Magno, con due milioni di turisti all’anno per vedere un chiesa gotica e un cranio con un buco, che non può essere quello dell’Imperatore Carlo, ma di Carlo il Grosso.
Invece di fare i salti dalla gioia per sfruttare la nostra Cappella Palatina, oggi Abbazia di San Claudio, a fini turistici, alcuni abitanti di San Claudio, vicini alla parrocchia, che ti fanno?
Ti fanno una guerra spietata… Ma non possono andare contro l’evidenza dei fatti e delle prove. Non possono elevare una barriera intorno all’Abbazia di San Claudio, con una notevole perdita socioeconomica per la zona, per Corridonia e per tutto il Maceratese e il Fermano.