L’uovo sodo “pinto” che piaceva tanto a Giacomo Leopardi

Tanti gli usi e e le tradizioni in voga per la festa della tradizione
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Uova colorate

Uova colorate

di Mario Monachesi

Il giorno importantissimo e solenne della resurrezione di Cristo, della sua, quindi anche nostra, vittoria sulla morte, in campagna era consuetudine che i giovani facessero dono alle loro “forosette” (fidanzate) di fazzoletti colorati da portare sulle spalle; a loro volta esse ricambiavano con calze, sempre colorate, a strisce circolari fatte con le proprie mani e camicie. Erano regali che indossavano subito anche perché in questo giorno era usanza rinnovarsi i vestiti. O almeno qualche capo. “De Pasqua e de Natà’ se rennoa lu villà'”.
L’uovo, la cui tradizione come dono augurale di Pasqua sembra risalire addirittura al sec. XII, in questo periodo ha sempre avuto la massima importanza. Tanto che un detto popolare recitava: “‘gni trista pollastra fa l’oe de Pasqua”. Al tempo del Re Sole l’uovo era composto di materiali pregiati e già da parecchio, a simboleggiare lo stupore per la vita nascosta nell’uovo stesso si inseriva al suo interno una sorpresa. Forse memore di questo passato, in campagna quando quello di cioccolata era ancora di là da venire, a fare la parte del mattatore era l’uovo sodo “pinto”. Esso veniva decorato avvolgendolo di foglioline e fiorellini di campo, a loro volta ricoperti d’un velo di cipolla, che dava una colorazione gialla e di carta colorata in modo che delle foglie e dei fiori ne restasse l’impronta sul guscio. Una volta ultimata questa operazione veniva messo nell’acqua a bollire. Con le uova “pinte” la mattina di Pasqua si giocava a “pizzetta”, (o “scoccetta” o “ciocchetta”). Il gioco consisteva nel picchiare pizzo contro pizzo, o fianco contro fianco, quello che cedeva per primo perdeva. Un secondo divertimento era quello di lasciar rotolare da una certa pendenza due uova, quello che tagliava il traguardo per primo vinceva.
Anche Giacomo Leopardi era così affezionato alle uova sode pasquali che il 17 marzo 1826 scriveva alla sorella Paolina: “salutami il curato e Don Vincenzo, e dà loro a mio nome la Buona Pasqua, che io passerò senza uovi tosti, senza crescia, senza un segno di solennità”.
Il 31 marzo 1828 scriveva ancora: “A proposito di Pasqua, vi raccomando quelle povere uova toste, che non le strapazziate quest’anno: mangiatevele senza farle patire e non siano tante”. Oggi l’uovo di Pasqua (cioccolato al latte, fondente, bianco, ecc) scende addirittura in piazza per la raccolta di fondi da utilizzare in nobili cause. Dopo le rinunce della Quaresima, la Pasqua con i suoi tre giorni di festa, oltre al senso liturgico, trovava piena affermazione anche sulla tavola. I contadini tenevano molto alla colazione che facevano con la coratella d’agnello cotta con le uova, o spalmando sulla “crescia de Pasqua”, (una pizza dolce), il ciauscolo. Gli artigiani invece la facevano con la frittata con “ll’erba de ll’oe” che poi era la borragine. Il pranzo iniziava con l’antipasto: si finiva il vecchio salato e si iniziava quello nuovo, esclusi lonza e prosciutto, unito a uova sode tagliate a metà. Poi tagliolini in brodo o minestra di fette di pane indorate con uovo battuto, cosparse di formaggio e inzuppate nel brodo di gallina. A seguire l’agnello preparato in diversi modi, arrosto nel forno a legna arroventato con le fascine e fritto. Tra i dolci, le cresce dolci o al formaggio (quelle citate dal Leopardi) , le ciambelle fatte di pasta di uova, la colomba (palomba o palomma). La maggior parte di questi dolci resistono ancora, ma sempre meno famiglie li fanno in casa.
Il lunedì, seconda festa, l’usanza era di andare a parenti portando in dono i dolci già sopra descritti, il salato o altro. Il martedì terza festa era dedicata alle scampagnate. Tale tradizione sembra derivare dal fatto evangelico secondo cui Gesù, nel terzo giorno della sua resurrezione, andando da Gerusalemme ad Emmaus incontrò non riconosciuto due dei suoi discepoli e a sera fu ospite della loro mensa. Persa l’usanza religiosa, nel tempo è stata assunta quella della gita fuori porta. I maceratesi in questo giorno si portavano in massa alla festa della chiesa delle Vergini. I fidanzati con dietro i parenti usavano fare la “comparsa”, cioè presentarsi in pubblico. Sullo spiazzo antistante il tempio le bancarelle vendevano dolci, fave abbrustolite, lupini. Dopo le funzioni religiose si consumavano le merende con formaggio fresco, uova sode, finocchi, pizze, ciambelle, non mancava il vino. La giornata di solito si chiudeva con partecipate danze di saltarello.



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