di Giorgio Giannaccini
Mi hanno sempre colpito quei fitti e minuziosi parallelismi che, a parer mio, si celano e correlano l’opera musicale di Luigi Tenco con l’opera letteraria di Cesare Pavese.
È indubbio che dal punto di vista della poetica – ovvero delle tematiche – Luigi Tenco attuò, nella musica italiana, una profonda rivoluzione nel modo di fare testi; erano gli anni ’60, e questo cantautore piemontese insinuò qualcosa di nuovo nella tradizione della musica pop italiana, una rivoluzione così profonda che portò diversi critici musicali a considerarlo storicamente come il primo vero cantautore italiano. Cesare Pavese invece non ha bisogno di presentazioni: anch’egli piemontese, è stato uno dei più grandi letterati italiani del secondo Novecento, visse la Seconda Guerra mondiale, e fu un esponente dell’allora nascente Neorealismo.
Eppure, per quanto fossero diversi i due ambiti dei quali si occupavano – la canzone italiana in Tenco e la letteratura in Pavese -, costoro ebbero una poetica molto simile, scalfita da una profonda sfiducia per la vita e scandita da una problematica di fondo nella comunicazione interiore tra individuo e individuo; il tema dell’amore è in entrambi, in qualche modo, agapico, e probabilmente è più una sofferenza che un beneficio nella vita.
Altra comunanza più ovvia, è il modo in cui sono morti: entrambi di suicidio e tra l’altro abbastanza giovani – Tenco doveva compiere trent’anni mentre Pavese morì “più anziano” a quarantadue anni – ed ambedue lasciarono sul luogo del suicidio un messaggio scritto a mano, redatto poco prima di suicidarsi. Ma andiamo per ordine e ricostruiamo queste due personalità.
Luigi Tenco fu il primo vero cantautore di protesta della musica italiana, e questo gli costò dapprima la censura e poi l’espulsione dai programmi RAI per ben due anni, a causa dei suoi testi ritenuti troppo complicati e politicizzati, e delle volte ritenuti offensivi nei confronti della pubblica morale (le canzoni incriminate furono Cara maestra e Io sì).
Tenco mischiava, da una parte, la forte ribellione sociale verso quella società pre-sessantottina, così bigotta e arretrata, dall’altra, cantava del suo rapporto amoroso con le donne, poche volte tranquillo e spesso travagliato, non rinunciando mai ad una immediatezza linguistica che, al tempo stesso, era anche molto poetica – nella limpidezza e nella semplicità delle parole stesse.
Non fu scevro neanche da implicazioni letterarie: la deliziosa Quasi sera di Tenco è una riproposizione e rielaborazione, fatta in musica, di una lirica di Bertolt Brecht, intitolata In ricordo di Marie A., oppure, pochi sanno che la prima versione di Ciao amore ciao – intitolata Li vidi tornare –, citava La spigolatrice di Sapri di Luigi Mercantini. Difatti, se Mercantini aveva scritto nella sua poesia: “Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti”, Tenco, in un verso della sua canzone, dice: “Eran trecento, eran giovani e forti, andavano al fronte col sole negli occhi”.
Insomma, riprende questa poesia ma, invece di parlare della spedizione fallimentare del patriota Carlo Pisacane nel Regno delle Due Sicilie, parla di questi trecento partigiani – adoperando, quindi, dei soggetti che si sposano pienamente con il clima, a quel tempo contemporaneo, del Neorealismo – che salutano i loro cari prima di partire alla volta della guerra per poi non tornare più.
E infine, l’ultima versione di Ciao amore ciao, quella che noi conosciamo, riporta delle suggestioni che, oltre ad essere di matrice neorealista, sono palesemente pavesiane, basti confrontare questa canzone con La casa in collina di Pavese, e si noteranno davvero tante se non troppe similitudini nell’io narrativo che pervade la canzone.
L’uomo Tenco si ricava poi dalle sue canzoni – scritte quasi sempre in prima persona – : è un personaggio che vive l’amore ma che non lo trova mai realmente, è pieno di incertezze, sicché, in questo tormentato sentimento, vi sono una miriade di angosce; risulta così quasi impossibile realizzare un amore autentico con una donna. Senonché il soggetto delle sue canzoni coincide pienamente con il personaggio vero e proprio di Tenco. Così fece anche Pavese nei suoi versi e nei suoi romanzi, laddove i suoi personaggi hanno un qualcosa di inventato – un qualche elemento di fiction, diremmo –, la psicologia di questi rispecchia pedissequamente la psiche di Pavese (in special modo quella dei protagonisti delle sue opere).
Le loro parole – intendo quelle di Tenco e di Pavese – attraversano un’inquietudine esistenziale, una consapevolezza della solitudine umana, una presa di coscienza che forse l’amore è, in un certo senso, impossibile da realizzare, insomma obbediscono a tutto quel clima della poesia novecentesca italiana (dai Crepuscolari a Montale, Quasimodo e Caproni, passando anzitempo per Leopardi e Pascoli) che prende coscienza della caducità e fugacità della vita umana.
I rapporti di Pavese con Leopardi sono ovvi: entrambi hanno una visione della vita che si rifà ai versi struggenti del poeta latino Lucrezio ed una consapevolezza dell’infelicità umana molto simile a quella di Schopenhauer ma, oltre a questi elementi più lapalissiani, ci sono anche corrispondenze meno visibili. Ad esempio l’epilogo de La casa in collina è molto simile all’epilogo del Dialogo di Tristano e un amico che fa parte de Le operette morali di leopardiana grafia e non è tutto: se Leopardi scisse lo Zibaldone, come suo diario personale, Pavese compose Il mestiere di vivere. Entrambi sono testi essenziali per capire la poetica dei rispettivi autori – tra l’altro, il titolo del diario pavesiano, ci riassume in una semplice frase tutta la drammaticità contemplata nell’opera di Pavese.
Ma tornando al nostro parallelismo principale, cioè quello tra Pavese e Tenco, come dicevamo prima, ci fu questa triste morte così simile nei modi e nella volontà dei due morti.
C’è da dire che quando Tenco si uccise, lo fece come atto di protesta verso il festival di San Remo, teatro e sacro tempio della musica melodica italiana, priva di vero contenuto artistico, e proiettata maggiormente verso una musica da consumo industriale. Tenco effettivamente cercò di cambiare la musica italiana e di creare una nuova musica – una musica che, come la chiameremmo oggi, sarebbe stata “d’autore”. Non ci riuscì, venne eliminato e non ammesso alle finali, e quella stessa notte si suicidò con un colpo di pistola alla tempia. Nella camera dell’Hotel Savoy, dove egli alloggiava, fu trovato, oltre al cadavere, un biglietto scritto a mano che recitava:
“Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale e ad una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi.”
Morì quindi repentinamente, tragicamente a mo’ di un eroe romantico – foscoliano e goethiano – con questa ultima rinuncia alla sua vita. Una morte assurda che, come scrisse Salvatore Quasimodo, nelle colonne de Il tempo, “ha voluto colpire a sangue il sonno mentale dell’italiano medio”. È indubbio che la sconfitta professionale, ma anche esistenziale, nella musica, abbia fatto affondare definitivamente Tenco, ma è anche indubbio che fu l’ultimo atto di una tragicità esistenziale che aveva perseguitato il cantautore per anni nella sua vita.
Il dramma di Cesare Pavese fu, invece, lievemente diverso. Dopo aver sperimentato diverse forme metriche, dalla poesia – ricordiamo Lavorare stanca – alla prosa – come La luna e i falò – e infine diverse e sconfinate traduzioni – come quella storica di Spoon River di Edgar Lee Masters -, non più invogliato da fama letteraria e ridotto a pezzi per l’ultima e infelice storia d’amore con l’attrice statunitense Constance Dowling – a cui, non a caso, sarà dedicata la stupenda e terribile poesia Verrà la morte e avrà i tuoi occhi -, in preda alla disperazione più totale per questo abbandono che riacutizzò quel disagio esistenziale che invase sempre la vita di Pavese, sarà indotto al suicidio. Il 17 Agosto, scriverà nel suo diario: “questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò”, il 18 Agosto replicherà: “Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più.”.
Fino ad arrivare al 27 Agosto, giorno che fu trovato morto in una camera d’albergo di Torino, suicidatosi ingerendo più di dieci bustine di sonnifero. Sul tavolo della camera d’albergo fu trovato un libro, ovvero Dialoghi con Leucò – opera che pubblicò qualche anno prima – aggiungendo, nella prima pagina, una scritta a mano:
“Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.”
Se la morte di Pavese fu dovuta a “un vizio assurdo” che si compì improvvisamente in “un grido taciuto” (usando le stesse parole di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi), la morte di Tenco fu l’espiazione ultima da quell’esistenza che, come ci dice in Un giorno dopo l’altro – e si faccia attenzione al titolo, che richiama lo scorrere lento ed inesorabile del tempo (l’avvicinarsi quindi alla deiezione), andando a ricordare, tra l’altro, anche una raccolta poetica di Quasimodo, ovvero Giorno dopo giorno -, si compiva nella mancata realizzazione professionale e umana di se stesso, vanificando ogni impulso vitale, e come egli stesso ci cantò: “un giorno dopo l’altro\ la vita se ne va\ e la speranza ormai è un’abitudine”.
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