di Giandomenico Cicchetti
C’è un passo dolorosissimo del Deuteronomio che, in un unico versetto (30,15), sembra voler condensare quarant’anni di vagabondaggi traverso il deserto: di privazioni, di oblazioni, di preghiere; di rinnovate alleanze e ripetuti tradimenti; di miracoli amorosi e sanguinosi castighi: attraverso la bocca del più grande profeta che Israele abbia mai avuto, Dio parla al proprio popolo, che si prepara – a seguito di tanti e tanto amari travagli – a varcare il confine della Terra Promessa; prima che ciò finalmente avvenga, Dio mette Israele davanti ad una scelta che è, a un tempo, riassuntiva e definitiva, conseguenza dell’alleanza e riconferma ultima di essa: come per tirare le somme di ciò che è stato e porre le basi di quanto sarà: <<Guarda, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male>>.
Simile all’interminabile e martoriato errare del popolo d’Israele è la vita di ogni uomo: volta al raggiungimento di una meta promessa, ma che appare irragiungibile: un esodo insidiato da grandi ostacoli, da difficili tentazioni; non si ha neppure la certezza che ostacoli e tentazioni servano ad una maggiore comprensione di questo assurdo percorso, ad una più profonda coscienza del significato di esso: che preludano al disvelarsi del fine dell’esistenza: della felicità: dell’amore: della salvezza; così ci si affida ad una guida, per tentare di seguirla e, seguendola, alimentare la costante – pur se talvolta esigua e vacillante – speranza di poter guardare alla propria sorte senza provarne ribrezzo, di poter trascendere il limitare carnale dell’esistenza: nonostante, inevitabilmente, <<tutto è vanità>>: andare oltre l’imperfezione, l’incompiutezza, la parzialità umana … poter soltanto presagire la minuta enormità dell’infinito!, dove l’angoscia della complessità, dell’eterogeneità, della caducità, dell’incertezza, dell’incomprensibilità, diviene serenità di polimorfa ed imperitura essenza; e ogni uomo, in taluni momenti cruciali della propria vita, si sente posto davanti alla scelta tra la vita e il bene, tra la morte e il male.
Questo dilemma è l’oggetto dello scritto di Tolstoj intitolato Confessione, scritto poliedrico e brillante: autobiografico, filosofico, teologico, letterario; nel quale il grande scrittore confessa i motivi e le vicissitudini che l’hanno indotto alla ricerca di Dio e della fede: in Confessione Tolstoj ci racconta gli eventi della propria vita; le teorie scientifiche che lo hanno influenzato; il rapporto con la chiesa ortodossa e con le altre fedi, con le istituzioni ecclesiastiche e statali; l’ipocrisia di chi adopera la fede non come strumento di salvezza ma come mezzo per conseguire fini terreni, spesso infimi, venali; la contraddittoria ammirazione per il popolo incolto e superstizioso; il rapporto controverso coi ricchi e gli intellettuali; l’irrosolto conflitto – motivo ricorrente nella produzione del grande autore russo – tra ragione e irrazionale: tra intelletto ed emotività, istintualità, spiritualità … e tutti i tormenti interiori che a seguito di ciò hanno turbato il suo animo: tutti gli arrovellamenti intellettuali compiuti per tentare di porre fine a questi turbamenti.
<<E mi svegliai>> è la frase con cui termina Confessione. Si tratta di un risveglio vero e proprio, il risveglio da un sogno che da inquieto muta in piacevole e sereno, come Tolstoj auspicava sarebbe mutata la propria disposizione d’animo a seguito della presa di coscienza della propria condizione e della ferma volontà di mutarla, di capovolgerla: definitivamente: una volta per tutte; ma questo mutamento definitivo, sempre perseguito, sempre annunciato, sembra non essere mai conseguito pienamente. Nella sterminata produzione di Tolstoj troviamo moltissime pagine dedicate a risvegli figurati, a improvvise prese di coscienza che scombussolano il modo di vivere dei personaggi: che si tratti, come per Anna Karenina, di un disperato fallimento sentimentale, dell’apostasia dell’amore in ogni sua forma; o piuttosto, come per Ivan Ilic, di un misterioso male che destabilizza la monotona normalità di una vita apparentemente appagante, finendo per rivelare che non di normalità si trattava, quanto piuttosto di banale insensatezza; che si tratti, come per Konstantin Levin, della morte di un fratello, che pone Levin davanti alla propria incapacità di accettare la mortalità, inducendolo ad intraprendere un tormentato percorso spirituale; che ci si abbandoni alla dissolutezza e all’incuria, come fa Pierre Bezuchov, per tentare di non affrontare il fallimento della proprai esistenza, e poi si tentino le vie più disparate e bizzare per riscotersi dalla turpitudine e dalla vigliaccheria nelle quali si è precipitati; che si resti feriti in guerra, come accade ad Ankreij Bolkonskij, e mirando lo splendore del cielo ci si renda conto della bellezza di ciò che si può perdere da un momento all’altro, inavvertitamente; o che avvenga, come ad Evgenij Irtenev, di rendersi conto di essere in balia di uno strano diavolo – il demone della libidine – al quale non si può scampare.
In tutti questi casi i personaggi sono vittime di un deliquio dello spirito, di un lungo e nocivo letargo dell’interiorità; nel momento in cui si svegliano, vanno incontro a sorti differenti: Levin troverà un compromesso con la vita in un <<indubitabile senso di bene>> che gliela renderà tollerabile, Bezuchov si redimerà grazie all’amore dell’incantevole Natasha … ma non altrettanta fortuna avranno Evgenij e Anna: se quest’ultima, com’è noto, decide di porre termine alla sua vita facendosi travolgere da un treno, Tolstoj assegna ad Evgenij, scrivendo due finali per la sua storia, una duplice colpa: Evgenij è assassino e suicida; pure, ammettendo che per questi due spirti caduti in disgrazia si possa parlare di risveglio, si tratta di un risveglio inverso: un delirante e autodistruttivo salto nelle tenebre della morte e del male; ma ci è lecito, in questo caso, parlare di scelta?, ci è lecito affermare che sono stati Anna ed Evgenij a scegliere il male e la morte?, o non dovremmo ipotizzare, piuttosto, che siano stati il male e la morte a scegliere loro e che il loro suicidio non sia un disperato tentativo di fuga?
Il suicidio, inteso come fuga dalla morte e dal male, ci sembra di ritrovarlo quando leggiamo Confessione, la cui datazione (1882) è posteriore a quella di Anna Karenina (1877) e anteriore a quella di Il diavolo (la cui prima stesura risale al 1889, ma che in seguito venne modificato); come pure, in La morte di Ivan Ilic, la morte assolve al compito di liberatrice, per non dire di salvatrice: <<è finita la morte>>, dice Ivan Ilic spirando, come se ad abbandonarlo non fosse stata la vita: vivendo in modo erroneo, sciupando i giorni e la loro bellezza, Ivan Ilic ha fatto sì che la sua vita non fosse altro che <<male e non senso>>: ha scelto la morte e il male, proprio come Tolstoj dice di aver fatto prima della conversione.
In Confessione Tolstoj ci svela il suo proposito più oscuro: quello di togliersi la vita; tuttavia analizzando a fondo tale proposito, Tolstoj riesce a capovolgerlo: e a scorgervi non il desiderio di fuggire la vita, bensì quello – opposto – di fuggire quella Vita-in-Morte (per dirla alla Coleridge) che è la vita senza fede: <<solo nella fede si può trovare il senso della vita e la possibilità di vivere>>, fuori della fede non può esservi vita, ma solo morte: soltanto Vita-in-Morte: <<senza la fede non si può vivere>>. Leggendo Confessione, possiamo ipotizzare che essa sia stata scritta da un Tolstoj stanco di cogliere il fascino della vita in tutte le sue manifestazioni: nella malvagia goliardia di Anatol; nella morte di Andrej Rostov, descrivendo le tendenze misticheggianti del moribondo; nell’amore adultero di Anna e Vronskij: nella sua illecita tenerezza; nelle frivolezze di Denisov; nel carattere scanzonato ed egoista di Oblonskij: Tolstoj ha bisogno di ricondurre ad unità le miriadi di sfaccettetature della sua sterminata, incontenibile personalità, non può più limitarsi ad osservare e a cadere nelle malie delle più contraddittorie circostanze: ha bisogno di dire: questo è bene, questo altro è male; è stanco di subire il fascino che promana da ogni cosa che lo circonda, da tutto ciò che accade attorno a lui, tanto da non sapere neppure lui stesso in cosa crede e in cosa non crede: incomincia a ricercare la fede: <<Se l’uomo vive, significa che in qualcosa crede. Se non credesse che bisogna vivere per qualche cosa, egli non vivrebbe. Se non vede e non capisce l’illusorietà del finito, egli crede in questo finito; se capisce l’illusorietà del finito, egli deve credere nell’infinito>>.
Prima di convertirsi, Tolstoj ricerca <<la soluzione della contraddizione tra il finito e l’infinito>> nella scienza, ma ben presto capisce che la scienza non risolve tale contraddizione: continuare sulla strada del sapere razionale sarebbe come farsi una domanda e rispondersi con la risposta ad una domanda diversa; scartata la scienza, Tolstloj cerca la risposta nello spirito del popolo russo, nei muziki, nei quali la fede sembra essere connaturata alla loro essenza; ma il popolo, nella sua ignoranza, si lascia abbindolare e raggirare dalle istituzioni ecclesiastiche, le quali distorcono il contenuto e l’essenza stessa della fede mediante i loro riti vacui e insensati … dunque: che fare?, non resta che continuare a cercare, ad insistere senza darsi per vinti: << Io so che la spiegazione di tutto, così come il principio di tutto, deve celarsi nell’infinito. Ma io voglio comprendere fino a essere condotto a ciò che è inevitabilmente inspiegabile, voglio che tutto ciò che è inspiegabile rimanga tale, non perché le esigenze del mio intelletto non siano giustificate (esse sono giustificate e fuori di esse io non posso comprendere nulla), ma perché vedo i limiti della mia ragione. Io voglio comprendere in modo tale che ogni proposizione inspiegabile mi si presenti come una necessità della ragione stessa e non come un obbligo di credere.>>.
Meditando su tale conclusione, non può non sorgerci un ultimo dubbio: è davvero possibile conciliare una fede autentica con le necessità della ragione?, oppure, tentando di farlo, si rischia di mettere in atto una sorta di autocoercizione alla fede attraverso la ragione stessa?
La ragione è parte del finito, della finitezza umana; mentre la fede è l’unica faccia che dell’eterno e dell’infinito si mostri all’uomo: essa non si presta a misurazioni: per quanto ci sforziamo, non vediamo dove cominci e dove finisca; la ragione non può essere uno strumento risolutivo del <<male e non senso>> che è una vita vissuta erroneamente; e fare della ragione l’unità di misura della fede, invece di mettere completamente la ragione al servizio della fede, è pur sempre una forma di resa all’irrisolvibilità – ammettendo che sia tale – della contraddizione tra il finito e l’infinito: come Mosè, impareggiabile profeta del popolo di Israele, ha osservato la Terra Promessa dal monte sul quale è morto ma non ne ha mai sondato il suolo, così questo grande profeta che è Tolstoj è sempre a un passo dall’infinito: ma non lo coglie mai; giacché, in quanto uomo, malgrado la sua grandezza, non è in grado di contenerlo.
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