di Jonata Sabbioni
Il senso di un libro è più importante della sua coerenza interna. Se per senso s’intende il campo dei valori cromatici e dei suoni, delle simbologie e dei cambi di ritmo, dei rimandi e delle ambizioni, esso fa la preziosità del racconto, ne intesse l’unicità, sostanzia la sua funzione metaforica. Quando un libro di viaggio, poi, trascende il viaggio stesso poiché diventa una testimonianza di permanenza e una dimostrazione di metodo, possiamo accettare il rischio – lo facciamo empaticamente – di essere condotti, di azzardare il passo e affidare lo sguardo. Il nuovo libro di Adelelmo Ruggeri non è un libro di poesia ma è un libro poetico, perché il viandante diventa l’eroe di una non-epica, di una descrizione sospesa e non tangibile. E lo intuiamo dal tiolo il risvolto che esso dispiegherà lentamente.
Subito o domani non è la stessa cosa (Italic Pequd, Ancona 2013) è un libro compatto, efficace nella sua potenziale estensione emozionale e gentile, ironico, che muove il lettore verso – e attraverso – piccole geografie intime e limitrofe. Lo scrittore annota le osservazioni di un occhio calmo che si muove lungo le traiettorie di micro-viaggi locali, che, a partire dalla città di Fermo dove Ruggeri è nato e risiede, si dispiegano lungo le linee incurvate delle colline fermane e marchigiane oppure lungo le direttrici orizzontali della costa adriatica (tra Marche, Abruzzo e Molise). Adriatica era proprio il titolo provvisorio del libro, come dichiara l’autore, e lo è stato fino a quando s’è ritenuto che così si dovesse leggere la trama di questi appunti dinamici, mediante i riferimenti lineari della costa d’oriente. Ma poiché il libro intendeva, al profondo, allargare la vista ad un andare più vario, improvviso e incoerente (nel senso di vario, di pluri-materico) allora l’autore ha assunto come emblematico il tono della “precisazione”, della messa in evidenza che il tempo – adesso o domani – non è indifferente all’equilibrio necessario per non essere assorbiti dal reale.
L’equilibrio “tecnico” che l’autore ricerca nel suo andare (“È tanto che non vado. Devo andare” scrive Ruggeri in chiusura) è indispensabile per stare fuori dalle cose (oggetti, paesaggi, fiumi, colline, dipinti), per osservarle e prenderne nota dalla giusta distanza. L’isolare dallo sfondo le oggettività (siano esse alberi o calanchi, il faro di Pedaso o il trabocco di Capo Turchino) aiuta a misurarle e insieme ne fa sentire l’inesorabile caducità. Così la “correttezza” delle dinamiche (l’esatta misurazione dei chilometri percorsi, la descrizione delle strade e degli incroci imboccati) è un modo per dire il non dicibile, l’universo delle cose tangibili che inesorabilmente sfuggono alla registrazione, alla comprensione, al significato ultimo e ultimativo. Gli epiloghi fraterni, poi, servono a raccogliere, come il filo di una collanina estiva, le impressioni di racconti vicini e (quasi) lontani a cui si vorrebbe imprimere una logica, una geometria, una sfericità rassicurante. Essi, però, non si fanno mai “viaggio viaggio”, ossia viaggio definitivo oppure rottura e distacco, ma sempre sono una parentesi, uno spazio di quiete, un allontanamento sanabile.
A volte nel libro, attraversato da digressioni e virate improvvise, si segue con l’autore un tema, un motivo che dà modo allo spirito di concentrarsi, di stabilizzarsi. È questo il caso della parte del racconto in cui si percorre l’itinerario alla scoperta (o riscoperta) dei molti dipinti di Lorenzo Lotto presenti nelle Marche centro-meridionali (a Monte San Giusto, Mogliano, Recanati, Cingoli, …). Anche qui la necessità della descrizione, all’interno del linguaggio azzurro di Lotto, è il modo di fissare le unicità dell’osservabile e dice del tentativo di scoprire lo spazio del vero, dell’intimità introspettiva, del percorso verso “il cuore delle cose”. Ruggeri, inoltre, dimostra che il rapporto soggettivo-oggettivo è un rapporto da risolvere togliendo, elidendo, scavando attorno al nucleo. È significativa, per trasporre questo esercizio di “riduzione”, l’epigrafe che l’autore pone al libro, tratta dalle Georgiche: “addensa ciò che era or ora rarefatto, e dirada ciò che era spesso”. L’azione dell’io narrante, quindi, si fa ardua e alta nella comprensione del segreto del tempo e delle ore. Il tempo del presente che “nella sua istantaneità permea di nuovo di silenzio tutto quanto” è la premessa per la scelta della luce come fase incipiente della scoperta (l’autore crede che l’alba sia il tempo migliore per partire: “Mi erano amiche le quattro del mattino /Ora sono solo una tana senza luce”). La potenza del presente, la capacità del tempo attuale di manifestarsi attraverso ciò che vediamo, la forza con cui la realtà si attua e ci trattiene, è l’occasione della scrittura, ciò che può approssimare la felicità prima e oltre la volontà oppure indipendentemente da essa. “Sì, sono io che dico: vado qui anziché lì, lì anziché là, sono io che scelgo la meta […]. Ma non c’è un perché in senso stretto, ma alla fine (il perché) arriva. Arriva la necessità”.
Inoltre l’autore-soggetto usa la mediazione della memoria, dell’apertura al senso della trasposizione (trans-posizione, posizionamento tra due luoghi) per affermare, come a commento di una nostalgia illuminante, che “le parole erano aperture di senso sempre, perché tenevano in loro il respiro del significato”. Oppure sono vere come le azioni, le parole, e citando i Pensieri diversi di Wittgenstein, l’autore ferma in un verso del filosofo – ingegnere austriaco l’emblema della potenza della narrazione-testimonianza: “Le parole sono azioni”.
Nel compimento dell’estate adriatica, infine, sfuma il racconto tenue, quando “Il sole d’agosto avvolge di luce tutto quanto” ed “era bello stare lì” (un lì che è luogo esteso, imprecisabile) e “la lunga vacanza […] sta finendo” e le figure si muovono “sullo sfondo ampio del mare, che più locale di questo, per te che sei di qui, non potrebbe essere, la sola sagoma del solo mito che conosci”. Lo scrittore assume la consapevolezza di volere essere in un mondo che gli appartiene per natura e non ha la forza di farsi da parte definitivamente e preferisce la vertigine dei sogni ricorrenti (il ricordo emotivo del suo arrivo da studente a Bologna), delle “evasioni” conosciute e dimenticate (come quelle alla ricerca della sorgente del fiume Ete Vivo), per evocare, ancora e per sempre, l’inatteso.
Adelelmo Ruggeri (Fermo, 1954) vive e lavora a Fermo. Ingegnere edile, pubblica per Pequod le raccolte di poesia La città Lontana (2003), Vieni presto domani (2006), Semprevivi (2009). Le sue prose di viaggio sono raccolte nei libri Porta Marina – Viaggio a due nelle Marche dei poeti, con Massimo Gezzi (Pequod, 2008), I tetti sono semplici a Sali (Capodarco Fermano Eduzioni, 2012 e in questo Subito o domani. Non è la stessa cosa.
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