Per onorare la memoria di Wladimiro Tulli

RUBRICHE - Perchè la città della cultura sia credibile

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di Filippo Davoli

Si avvicina il decimo anniversario della scomparsa di Wladimiro Tulli.

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Con un mantra che si ripete da anni, Macerata si candida ad essere città della cultura e centro di irradiazione della stessa nel mondo (modestia a parte). Non c’è Firenze che tenga, non c’è Venezia che possa vantare una qualche unicità, non c’è Genova-Napoli-Perugia-Bologna-Modena-Arezzo-Siena-Pisa che possano avanzare alcuna credibile pretesa: chi meglio di Macerata, come capofila italiana o europea dell’arte, della letteratura e della musica nel mondo?
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Esaurita la dose di etereo e risibile campanilismo, rieccoci di nuovo in Piazza Libertà con, sulla groppa, qualche buon decennio di artisti e operatori culturali vissuti e dimenticati a Macerata, nonostante le lodevoli intenzioni: dovrò ricordare ancora una volta la porta murata di casa Liviabella, per la quale nessuno ma proprio nessuno solleva un distinguo o inizia un percorso per almeno una soluzione di facciata? La prima volta che sollevai la questione fu alla fine degli anni ’80, primi ‘90… Possibile che un ufficio tecnico solerte come il nostro – che fa un mare di precisazioni per l’apposizione di una pedana d’abbattimento delle barriere architettoniche agli ingressi dei negozi – non si sia premurato di rimediare alla gaffe con l’indicazione perentoria dell’apposizione di un portoncino sopra i mattoni a faccia vista che occultano l’ingresso antico della palazzina? Nella città dello Sferisterio? Che ambisce ad essere capofila europea della cultura e dell’arte?
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Wladimiro Tulli e Filippo Davoli

Sempre a metà degli anni ’80, rimangono indimenticabili i corsivi al vetriolo di Remo Pagnanelli (sotto le mentite spoglie di Matteo Ricci) sulle colonne di un noto quotidiano locale: erano bordate senza ritorno alla mentalità della città, nonché alla sua organizzazione scientifico-culturale (università, musei, biblioteche, etc.). Erano anni di rigoroso governo bianco fiore. Nonostante talune migliorie – e notevoli – all’assetto museale, il caro amico scomparso scoprirebbe, oggi, che la mentalità non è poi cambiata così tanto, nonostante gli avvicendamenti politici… e gli aumentati sportelli bancari: tanti, tantissimi, troppi. Ma che la dicono lunga su ciò che sia realmente prioritario in questa nostra città.
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Dunque la cultura, dicevamo. E l’arte. E qui il discorso si restringe fatalmente. Perché, nonostante la valenza sociologica di una capillare attività dilettantistica, indizio di una fruttifera attenzione, ancorché talvolta premiata da interessanti finanziamenti, è gioco forza che una città non possa essere composta per tre quarti da artisti: il Novecento delle neoavanguardie, uccidendo la poesia e la critica, ha in fondo favorito il proliferare delle voci ma senza verificarne la tenuta, la qualità, l’attendibilità. Ha volentieri originato il caos, riconducendo le esperienze non più in nome di un qualche valore estetico (voce, questa, a tratti anche considerata tabù e probabilmente di destra!…), ma in nome di un’ideologia (prima) e, con la morte di queste, in nome delle arcinote conventicole degli amici degli amici (dopo e, ancora, oggi).
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Sta di fatto, però, che – come la Storia livella e sotterra almeno quanto, contemporaneamente, risuscita e consacra – l’arte, quella con l’A maiuscola, non patisce i maltrattamenti quasi fisiologici della critica (o, peggio ancora…, della piccola casa comune locale): e prosegue il proprio percorso indisturbata, al di là degli steccati e dei riscontri. Basta una fiammata di autenticità per far sparire nell’oblio i molti rumori che ci circondano. Basta un sospiro di Chet Baker per vanificare i mille birignao sonori di altri roboanti trombettisti. E così, basta un azzurro di Wladimiro Tulli per ricoprire di grigio le infinite querimonie giustificative di una miriade di pittori in erba.
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Tulli era approdato all’astrattismo dopo una giovinezza figurativa bellissima (avevo pure scovato una sua natura morta in casa di un noto commerciante del centro, che ne ignorava la bellezza e la rarità, essendo datata 1942). Quella natura morta così antica e – due anni prima di cambiare destinazione (il Cielo…) – quelle indimenticabili scenografie per la “Piccola città” di Thornton Wilder (allestimento che segnò il 50esimo della Compagnia “Oreste Calabresi”, con Ugo Giannangeli tornato in scena) rimangono, per me, due momenti fondamentali di un incontro che mi ha segnato tanto, sia come scrittore che come uomo: Tulli era un amico meraviglioso, sempre pronto a salire a bordo della nave, quale che ne fosse la destinazione, purché guardasse avanti.
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Non penso serva fornire qui il coccodrillo di questo piccolo grande artista maceratese. Preferisco invece ricordarlo con un aneddoto che fu importantissimo nella mia maturazione. Ricordo che lui vestiva sempre in maniera “forte”, per così dire, abbinando colori di improbabile contiguità: marrone e azzurro, viola e bianco, giallo, contemporaneamente. Eppure, curiosamente, addosso a lui non stonavano. Così un bel giorno mi risolsi a chiedergli come fosse possibile. E lui mi spiazzò con una considerazione tanto semplice quanto sorprendente: “Semplice! Perché io non ho paura dei colori”. Risposta esatta: lui non aveva paura dei colori, ossia non aveva nessuna paura della vita. L’amava, anzi, la vita: la sognava e si incantava ad amarla. E questa, per noi di questa terra, così sognante ma così arroccata in cima alla collina, dentro le nostre mura urbiche che ci difendono da qualunque contaminazione reale (salvaguardando cioè solamente quelle del sogno e del segreto), questa è una lezione importantissima, da non sottovalutare. Specialmente in una città che sta morendo e che pare proprio non ritrovare la strada.
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C’è bisogno di padri, di maestri. Il secolo scorso ha pensato bene di farli fuori, in nome di un’improbabile emancipazione. Ma come si può guardare avanti senza avere le radici ben piantate nella tradizione? Questo fiume di alte lezioni, di grande scuola umana, ha funzionato alla perfezione fin quando i sovvertitori non han creduto possibile soppiantarli in forza di un capriccio (più ideologico che ideale). Schiacciare il grillo parlante, evitare confronti, sentirsi imparati prima di imparare, esperti solamente esperendo e non anche studiando, e non anche frequentando e amando. È una piccola tenace follia che conduce al disastro.
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169063_120149901390917_1038482_n-300x238A febbraio saranno dieci anni che Miro Tulli se n’è andato a miglior vita. Mi auguro – anche io nel segreto arroccamento del mio ricordo – che Macerata voglia e sappia onorarlo come merita: sarà un passo autentico verso la valorizzazione delle voci nuove. Una grande occasione per rialimentare l’ossigeno e la circolazione sanguigna di questa città.

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