di Renato Perticarari
Come di frequente avviene, Liuti pone il dito nella piaga. Questa volta quella inferta dai tagli imposti alla finanza derivata a favore degli enti locali. Anche se i dati sui tagli sono ancora non definitivi, è certo che almeno l’ordine di grandezza è quello indicato da Liuti ed è, quindi, necessaria una grande assunzione di responsabilità per le inevitabili scelte (anche dolorose) che il Comune dovrà fare. E’ anche vero, poi, che non c’è molto da attendersi sul fronte dei risparmi; qualche risultato, certamente, si potrà conseguire sulla razionalizzazione della spesa e qualcosa potrà anche venire (molto poco) sul fronte delle tariffe, ma non più di tanto e non certo in misura tale da colmare il gap con le riduzioni dei trasferimenti. Ma allora ?
C’è, a ben vedere, un settore di attività che per il Comune – da tempo immemorabile – è (colpevolmente) negletto: la gestione del patrimonio (innanzitutto immobiliare, ma non solo). Quasi un fastidio, invece che una grande possibile risorsa, ormai l’ultima rimasta agli enti territoriali.
Invece, è cosa abbastanza nota che i Comuni (e Macerata non fa eccezione) quasi sempre sono perfino ignari della consistenza del loro patrimonio immobiliare, per non parlare della inconsapevolezza di quale sia il livello di redditività di quel patrimonio che fosse dato in uso a terzi.
Un esempio, a Macerata, è emblematico: i locali situati al piano terra della Palazzina dove ha sede l’Ufficio Tecnico del Comune e che danno sulla stradina che separa tale Palazzina dal Centro Direzionale di via Carducci e che collega viale Don Bosco con Corso Cairoli.
L’esempio è emblematico per vari motivi:
Questo è solo un esempio, significativo ma marginale. Il vero snodo nella gestione del patrimonio immobiliare si può produrre attraverso un approccio moderno al tema, come moltissimi Comuni – in particolare nel Nord del Paese ma anche a noi vicini – fanno ormai da tempo e come da anni qualcuno propone inascoltato. Il patrimonio come risorsa, non più come problema.
A Macerata, poi, il tema ha risvolti dimensionali tendenzialmente importanti, passibili di produrre altrettanto importanti ricadute sociali, tanto più in una fase come quella attuale. Mi riferisco al rilevantissimo patrimonio immobiliare che, a regime, sarà devoluto al Comune in attuazione del Piano-Casa e che dovrebbe consentire, finalmente, una seria politica abitativa per le fasce più deboli.
Ma una gestione moderna e profittevole del patrimonio non si ferma a questo, basti pensare alla proprietà delle reti attraverso le quali si erogano i servizi.
Quindi, tutto quello che scrive Liuti è vero, è necessaria una “operazione trasparenza” sui sacrifici che ci aspettano, ma se vogliamo dare anche una prospettiva è necessario mutare radicalmente, come ritengo l’Amministrazione voglia fare, l’approccio sul fronte delle risorse attivabili.
—
Il commento di Giancarlo Liuti
Per poter lasciare o votare un commento devi essere registrato.
Effettua l'accesso oppure registrati
Non fa una piega.
Non fa una piega perché…è già piegato.
Negli anni passati è stata fatta una scelta di politica del territorio ben precisa che ha attratto tanto gli amministratori quanto i tecnici: no al piano regolatore (troppo lento rispetto a dinamiche economiche veloci), sì a forme alternative di varianti edilizie (rispondenti alle effettive esigenze imprenditoriali).
Così si è messo in soffitta il vecchio e lento Piano Regolatore in favore di formule di “urbanistica creativa” che hanno il merito di essere veloci e di portare soldi nelle casse comunali.
Ma con questa velocità si è sicuramente perso qualcosa per strada e adesso cominciano a venir fuori le lacune di questa “urbanistica creativa”. Innanzitutto scopriamo che le casse comunali non si riempiono poi così tanto, o meglio, si riempiranno quando l’edificazione sarà “a pieno regime”, “se la crisi permetterà ai costruttori di finire il lavoro”, etc…Non vi sembra terribilmente simile ai discorsi relativi agli interessi bancari? (i soldi=risorsa vengono vincolati alla borsa, all’indice mib, sol diesis, etc…). Poi scopriamo che per fare quattro case non bastano solo le mura e il tetto ma anche i garages e i parcheggi, la strada accessibile all’ambulanza e il verde intorno, magari una fermata dell’autobus e il posto per i bidoni della spazzatura, magari lasciare un buco per un eventuale edicola o alimentari (sempre ammesso che ci sia qualcuno che voglia aprire un’attività commerciale). Insomma, ecco cosa si perde con l’”urbanistica creativa”: l’urbanistica, cioè quella capacità di analizzare la città esistente e programmare quella futura, cose queste che difficilmente possono essere delegate al costruttore edile e per le quali ben poco serve la creatività spicciola, puntuale (i locali sotto l’ufficio tecnico del comune, l’ex caserma aeronautica, etc…).
“proprietà delle reti attraverso le quali si erogano i servizi”
Avv. Perticarari fa riferimento per caso al servizio idrico??
Caro Ranzuglia, faccio riferimento a quello che prevede la legge ed impone il buon senso e cioè che le reti restino totalmente pubbliche.
…”quello che prevede la legge…e cioè che le reti restino pubbliche”.
In un altro articolo l’avv. mandrelli parlando dell’acqua esordisce dicendo..”Le ultime norme sulla liberalizzazione dei servizi pubblici locali, tra i quali è ricompreso anche il ciclo delle acque, aprono la strada alle privatizzazioni anche in tale settore”.
@avit: la proprietà delle reti è una cosa, la liberalizzazione del servizio idrico è un’altra e riguarda esclusivamente la gestione. E’ a quest’ultima che guarda Mandrelli; infatti la norma contro cui si pone l’amico Bruno è la seguente (comma 1-bis dell’art. 15 del D.L. n. 135/2009):
“Tutte le forme di affidamento della gestione del servizio idrico integrato di cui all’ articolo 23-bis del D.L. n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 133 del 2008, devono avvenire nel rispetto dei princìpi di autonomia gestionale del soggetto gestore e di piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche, in particolare in ordine alla qualità e prezzo del servizio, in conformità a quanto previsto dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, garantendo il diritto alla universalità ed accessibilità del servizio”.
Nonché la parte dell’art. 23.bis del D.L. n. 112/08 che prevede l’obbligo della cessione almeno del 40% delle azioni possedute dai Comuni nelle società che gestiscono il servizio.
In Europa dove si è liberalizzato il mercato dell’acqua nella stragrande maggioranza dei casi si sono avuti subito 2 effetti “positvi”.
L’acqua è costata subito di più e, contemporaneamente, la qualità è scesa ai minimi termini.
.
.
.
Non vorrei che poi si rifacesse il gioco delle 3 palle e un soldo di quando era Ministro Donat Cattin: ricordate?
Aumentò in alcune zone l’atrazina nell’acqua rischiando di trasformare l’acqua in NON potabile…
Intervenne il Ministro, alzando i valori minimi, rendendo “per legge” l’acqua potabile.
.
.
.
Se il Comune deve vendere la distribuzione dell’acqua che la venda ad una società di azionarato diffusa (formata dai cittadini maceratsi dove, per statuto, non sipossono vendere le quote per alcuni anni e nessuno può avere più di una quota millesimale)
mi sembra che il problema sia uno e uno solo: al comune di Macerata servono soldi; la situazione attuale e soprattutto quella in un prossimo futuro non è sostenibile né da parte dell’amministrazione né, tantomeno, da parte dei cittadini maceratesi. Senza entrare nel merito dell’articolo e quindi senza fare apprezzamenti sui modi esposti attraverso cui avere una qualche entrata nelle casse comunali, quello che preoccupa è l’atteggiamento scettico, pessimista, e ancor peggio, critico di gran parte dei cittadini maceratesi; una critica passiva che sicuramente non fa bene alla città, essendo noto che solo attreverso un spirito comune di collaborazione (oggi più che mai vista la crisi che sta attraversando Macerata e non solo) ,soprattutto a livello communale, si possono raggiungere obbiettivi e risultati soddisfacenti per l’intera comunità maceratese.