La viciangola o ardalena

LA DOMENICA con Mario Monachesi
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Mario Monachesi

 

di Mario Monachesi

“La viciàngola o ardalena” (altalena), tra i giochi poveri e umili di un tempo, quali “la fionda, lu telefonu co’ lu spagu e du’ varattuli de latta, lu schjuppittu de canna, l’arcu co’ le frecce, la pista co’ li tappi de vuttija, tana libbera tutti, fazzulittu, mosca cèca, cambana, quattro cantoni, ciuccitti, criscimondó”, ecc, ecc, è quello che, seppur modernizzato, ancora resiste.
“Na orda vastava un albiru ‘tunno l’ara co’ un ramu risistente, ‘na corda e ‘na taoletta, o un copertò’ cunzumatu de machina, per sidile. Gnente de più. A ‘stu puntu, ‘na vèlla spenta (spinta) e li vardasci cuminciava a volà’ e a divertisse. Chj adera senza paura, chjdia spintù sempre piriculusi: “E daje, spigni, c’adè suscì’ piano. Più forte”. Li frichi più picculi vinia spinti e tinuti da li ginitori, li più grossi facia anche da suli co’ la forza de li piedi.
A montalla era sempre lu patre, legati li du’ pezzi finali de corda, su lu ramu più per traerso, sistemava lu sidile. Se non troava gnente, pe’ non fa’ ‘cciaccà’, rcupria lu pezzu de corda vassa co’ ‘ma ‘bbutulata de stracci”.
Il gioco dell’altalena è molto antico, sembra risalire al XVI secolo a. C. e, all’area cretese, la prima statuina in terracotta rappresentante una figura femminile in altalena.
Una leggenda narra che nell’Atene classica veniva celebrata ogni anno la “festa delle altalene”: le “aiora”. Attraverso questa festa veniva ricordato Dionisio, il dio dell’ebbrezza. Il tono era però tutt’altro che spensierato e giocoso. Ricordava infatti la triste vicenda della giovane e bellissima Erigone, amante del dio, impiccatosi ad un albero, per l’orrenda cattiveria che gli Ateniesi avevano consumato contro il padre Icario, uccidendolo. Dionisio allora, volendo vendicare lei e il padre, gettò sulla città una specie di incantesimo per cui tutte le adolescenti, impazzite, seguivano l’esempio di Ericone, lasciandosi dondolare dagli alberi, come strani frutti.
Nella Roma rinascimentale, ritroviamo questo gioco nelle sontuose feste che venivano organizzate per il divertimento popolare. La “canofiera” (o “cannofiera”) era una sorta di grande altalena multipla che si librava anche a diversi metri di altezza.
altalenaNelle Marche, il nome altalena, ha avuto molte traduzioni, nei remoti, e anche nei meno remoti, tempi essa veniva chiamata anche: “bandilègia, ndindaló, nnavola (Corridonia), barcalèva, cavalàcia, dindondangula, dindulandò, dingulandàngula, dingulundèna”.
Un’altra bella tradizione, sparita dal secondo dopoguerra, erano i “canti dell’altalena”, un repertorio musicale popolare di antichissime origini, caratterizzati da struggenti canti d’amore e meno frequentemente d’ingiuria. I cantori si disponevano spalla contro spalla e insieme si dondolavano cantando.
“L’è rivà’, l’è rivà’ / l’è rivada ‘na bella biondina / con patate, con fagioli / l’insalata la ricciolina. / E co’ la paja / si fano i capelli / coi giovani beli l’amor si fa”.
Una filastrocca abbastanza moderna così si esprime: “Avanti e indietro sull’altalena / spingo le braccia, le gambe e la schiena / guardo il mondo che fa su e giù, / prima è qua poi non c’è più. / Salgo salgo fin lassù / e da li dico “cucù”. / Tocco il cielo con la mano: / da qui non è lontano! / Poi di corsa torno giù / e mi piego come un bambù. / Guardo il prato che si avvicina / e che ridendo a me s’avvicina / e che ridendo a me s’avvicina. / Soffia il vento sulla mia faccia / e poi veloce tutto mi abbraccia. / Muovo le braccia, le gambe e la schiena / ondeggiando sopra un altalena”.
Questo divertimento è stato ed è ancora cosi importante, che ad esso si sono interessati cantanti, pittori e scrittori.
“Ho visto Nina volare / tra le corde dell’altalena, un giorno la prenderò / come fa il vento alla schiena…” (Fabrizio De André da “Ho visto Nina volare”, 1996).
Tra i pittori che l’hanno magicamente ritratto, Jean-Honoré Fragonard (1776), Tiepilo (1783), Pierre- Auguste Renoir (1876).
“Un tempu, non c’era casa de contadì’ che sull’urmu (gelso) più prossimu all’ara non ce statia montata ‘na viciàngola. Era lu spassu de tutti, che orda anche de li più granni, quanno montènnoce no’ la ruppia. Po’, pe’ non sintì’ li frichi a piagne, duvia èsse’ reccommedata subbeto”.



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