di Mario Monachesi
“Da non confonne co’ le cerèsce” o le amarène. Le visciole sono il frutto di alberi o arbusti resistenti, spesso selvatici, un tempo diffusi in tutto l’Appennino umbro-marchigiano fino a circa 1000 metri slm, con un altezza che può andare dai 2 agli 8 metri. “Ogghj lu visciulu” (il visciolo), è una pianta quasi dimenticata ai più, seppur teneramente riscoperta da aziende tornate a commercializzarne il piccolo e tondeggiante frutto dall’aroma pungente e dolce. Queste “cerèsce servateche”, dette anche “guisciòle”, hanno tradizioni marchigiane. Un tempo nascevano e crescevano numerose in tutto il territorio, “jotte de lu sòle e de li monti de le Marche” maturavano anche negli angoli più remoti di questa nostre sempre generose campagne.
Appartenenti alla famiglia dei “Prunus cerasus”, non era difficile vedere i nostri avi, dopo averle “rcorde” tra giugno e luglio, trasformarle in “vi’ de visciole” o “visciole al sole”. Oltre, certamente, a marmellate, liquori ed altre succulente “creazioni”. “Lo vi’ de visciole”, secondo l’antica ricetta marchigiana, si ottiene dalla fermentazione (interrotta appena il contenuto alcolico raggiunge i 14°), “de la visciola co’ un vi’ ruscio locale”, in proporzioni variabili da zona a zona. Mentre nel pesarese, il vino adoperato è un rosso invecchiato, nel territorio che va dall’anconetano al maceratese si usa il mosto di uve rosse. Il prodotto aromatizzato ottenuto, dal colore rubino e straordinariamente deciso, dal sapore intenso ma delicato con retrogusto gradevolmente amarognolo, ben si abbinava e si abbina con “anicini, ciammellotti, ciammelle de musto, crostate, dolci secchi e ogni altro “durgiume de la tradizió’ marchigiana”. Questo vino annovera anche una seconda preparazione: “tramite macerazione delle visciole nel vino con aggiunta di zucchero”.
Per le “visciole al sole”, invece, la ricetta marchigiana prescrive: “Lavate le visciole ben mature e asciugatele delicatamente. Eliminate il picciòlo e ponetele, senza “spappalle”, in vasetti di vetro precedentemente sterilizzati a “bagnumaria”. Ricoprite di zucchero. A questo punto chiudete bene i vasetti e collocateli all’esterno, in un luogo esposto al sole ma ben riparato da “ventu e piogghja”. Per far sciogliere bene lo zucchero, agitate e rovesciate il barattolo. Trascorsi 40 giorni le visciole sono oramai sciroppo. Prima di procedere al suo consumo, fate trascorrere un altro mesetto. Durante i periodi caldi, i contadini lo bevevano aggiunto ad un “vecchjé’ d’acqua fresca de viscì” (frizzante tramite bustine di Idrolitina). Oggi accompagna gelati, creme e dolci di ricotta. Aggiunto al prosecco è un ottimo aperitivo.
All’epoca “‘stu sciroppu” lo si riteneva (e non era un errore) una bevanda vitaminica, veniva dato ai bambini in crescita, agli adulti impegnati nei lavori pesanti dei campi e agli anziani per ottenere effetto tonico e rinforzante. Il visciolo, come le altre varietà di ciliegi, giunge a noi dal Medio Oriente, precisamente dall’Asia. C’è chi sostiene che attorno al ’70 a. C., un console e generale romano, Licinio Lucullo, conosciuto per la sfarzosità dei suoi banchetti, abbia raccolto questa pianta a Cerasunte, città dell’Asia Minore e poi trasportata per piantarla nei suoi giardini. Semi riconducibili alla famiglia dei Prunus Cerasus sono stati rinvenuti in diversi insediamenti dell’Europa centrale, risalenti al periodo preistorico. Cosi scrive Giorgio Gallesio (1772 – 1839), botanico, nella sua opera “Pomona italiana”: “Camminando per le campagne marchigiane non è cosi insolito incontrare disseminati nei poderi, curiosi alberelli che invece di elevarsi piramidalmente come gli altri ciliegi, si allargano con una chioma rotonda, che li rendono pieni e cadenti”. Aggiungiamo noi: “dal ricco fogliame verde scuro che, ad inizio estate, si punteggia di un intenso rosso”. Resistente ad ogni clima, non ha bisogno di particolari attenzioni, ama il sole ma resiste anche alle basse temperature, così come sopporta anche la siccità. Dal XV secolo, “lu visciulu” ha anche il suo santo protettore: “San Gerardo da Tintori” e si celebra il 6 giugno. Sulla bontà, sull’utilità e l’uso culinario “de le visciole”, già dal 1583 aveva scritto Baldassarre Pisanelli nel suo “Trattato della natura de’ cibi et del bere”: “Le visciole che siano di dura sostanza ma ben mature che pare che tingano di sangue. Giovano e sono grate allo stomaco perche smorzano l’ardore della colera, tagliano la viscosità della flemma e fanno venire appetito, massime cotte con buona quantità di zuccaio sopra”. Secondo gli scienziati svolgono un importante ruolo salutare, modificano il metabolismo dell’acido urico, intervengono contro i dolori articolari, contengono la melatonina che favorisce il sonno. Hanno abbondanza di vitamine del gruppo B e C, minerali come Potassio, Magnesio, Fosforo e Calcio. Depura e disintossica l’organismo con la sua alta percentuale di fibre e il suo abbondante contenuto d’acqua.
Previene la cataratta. Particolare è l’uso dei peduncoli dei frutti, raccolti a piena maturazione e lasciati essiccare al sole, hanno proprietà diuretiche e sono considerati un sedativo delle vie urinarie, indicati per cistiti e insufficienze renali. Le visciole, una volta “staccate dagli alberi” non maturano più, quindi vanno raccolte a piena maturazione e consumate (o trasformate) subito. Il loro nome deriva dalla parola longobarda “wihsil” e ha mantenuto la radice slava “visna”, segno di una derivazione antica dalla parte orientale dell’Europa. Le prime ricette scritte “de lo vi’ de visciole” (nato nelle Marche), risalgono alla metà dell’800, mentre la prima bottiglia etichettata come vino di visciole è del 1925 ed è oggi conservata presso il Museo dell’Etichetta del vino di Cupramontana. Il Duca Federico da Montefeltro, secondo il suo fidato biografo Vespasiano da Bisticci, beveva solo vino “de ciriege o de granate”, il che fa pensare che questa bevanda detta anche “la sangria del Duca d’Urbino”, fosse già prodotta e consumata “in illo tempore”. Pare che in passato, infatti, “la visciolata” (“vi’ de visciole”), fosse usato per rendere i vini più robusti o comunque per correggere annate non particolarmente fortunate. In seguito, per la sua caratteristica dolcezza, esso venne considerato un vino femminile e detto “l’elisir del corteggiamento”. Oggi è considerato un vino da meditazione, da assaporare in compagnia di qualcuno, riscoprendone il gusto perduto. Nominato “tesoro patrimoniale da tutelare”, dalle grandi aristocrazie del Medioevo, è arrivato fino a noi grazie al lavoro e alla sapienza dei contadini. Fu molto apprezzato anche dalla Casa Reale di Savoia.
Buonissime maturano tardi e mia madre raccontava che ne mangiava col pane ,quando in campagna si sfruttava ciò che si raccoglieva .
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E il vino di visciole?? Mario me fai morì dalla voglia per quanto è buono!