di Mario Monachesi
Una volta si diceva: “De lu porcu non se vutta via gnènte”. Perfino il sangue veniva raccolto, figuramoci se in quei tempi di povertà e fame, non era prezioso “lo lardo”. Per secoli il lardo “ha ‘ nsapurito e ccunnito lo magnà’ de le popolazió’ più porette”. Fino agli anni ’60, in campagna, ha sostituito “lo vuro (burro), l’ojo e l’ojo de semi”. La vergara de casa “ce facia lo vattuto pe’ lo sugo (finto) pe’ la pasta o pe’ la menestra”. De prima matina mittia su lu focu ‘na pigna (pentola di terracotta) co’ cipolla, selliru, carota, conserva de pummidoru e lardo a pezzi. Facia rosolà’ a tembu a tembu, ‘gni tanto co’ la ventola dacìa ‘na ravviata a la vrascia e a minzujornu sonatu vuttava jò li macchirù’ o li tajiulì’ pilusi o li tacchitti. A granni e picculi no’ rmania che magnà’ de gustu e co’ fame” in un tripudio di odori e sapori.
Della sua succulenza, ne parlava anche un vecchio proverbio austriaco: “Non occorre mostrare il lardo al gatto, lo sa trovare da se”. L’italia rispondeva e ancora risponde con: “Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino”. Il lardo ė lo strato di grasso sottocutaneo delle parti superiori del maiale, prelevato dal collo, dal dorso e dalla parte alta dei fianchi dell’animale. Una volta salato e aromatizzato, per farlo mantenere più a lungo, veniva appeso “co’ ‘n’ancì'” (uncino) in un punto alto, buio e fresco di qualche stanza e lasciato per mesi a stagionare. Una parte di esso, veniva invece macinato e sistemato in barattoli di vetro. Come serviva “se ne pijava una o più cucchjarate”. “Co’ ‘n’impastu de lardo macinato, aju e tresomarì” (rosmarino), le nostre nonne o mamme “ce guarnìa e ccunnìa la carne magra da fa’ arustu” e cioè polli, conigli, selvaggina e carni da arrotolare. “Co’ lo lardo da sulu, invece, ce stongava, prima de cucinacce, le teje, per evità’ de non facce ‘ttaccà’ gnente”.
Il lardo, parola che deriva dal latino Làrdum o Larìnum e dal greco Larinòs, ossia ingrassato, per essere migliore deve possedere uno strato di almeno 5 – 6 cm e quindi provenire da suini di almeno 180 – 250 kg di peso (“Sus scrofa domesticus”). Il suo alto potere calorico, ben 902 calorie ogni 100 grammi, e la sua ricchezza di colesterolo, 95 milligrammi, vitamine e sali minerali pressoché assenti, lo relegano oramai a cibo d’altri tempi, quando il lavoro dell’uomo era molto più fisico e meno sedentario. Annovera inoltre molti grassi saturi e nonostante contenga la preziosa vitamina A, che ė difficile da trovare in natura, il suo consumo, seppur l’aroma sia superlativo, molto intenso e dal sapore deciso, oggi deve ritenersi molto misurato. Quasi privo di antiossidanti e poco digeribile, da qualcuno viene definito “buono e maledetto”, gioia per il palato e dolori per le vene.
In Italia le qualità più famose sono quella di Colonnata (Appennino Toscano) e Arnad (Valle d’Aosta). Il primo un IGP, viene lasciato maturare in vasche di marmo e poi stagionato per 6 mesi, il secondo un Dop, delicato e molto fine.
Si narra che ogni volta Michelangelo Buonarroti (1475 – 1567) si recasse a Colonnata, frazione di Carrara, a scegliere il marmo per le sue sculture, facesse incetta anche di questo lardo di cui era particolarmente ghiotto. Pare che lo gustasse su di una fetta di pane abbrustolita, insieme al pomodoro un po’ acerbo. Era anche il pasto, affinché avessero piu forza ed energia, per i lavoratori (a volte schiavi) di quelle cave. Anticamente era molto diffuso presso le popolazioni barbare, mentre nella civiltà Romana era diffuso solo fra gli strati più umili della popolazione: le classi più ricche utilizzavano come condimento l’olio. Bisognerà aspettare il IV secolo per vedere carni di maiale sulle tavole degli Imperatori. Solo durante il Medioevo aumenterà l’uso del lardo. A fine Ottocento il lardo veniva soprannominato “cibo degli anarchici”, perché i rifugiati in montagna dopo i moti del 1894 portavano con loro i maiali riuscendo così a sopravvivere anche per mesi grazie al lardo conservato sotto sale. Agli inizi del ‘900 certe famiglie contadine, in mancanza di carne, facevano il brodo con pezzi di lardo. Nel 1928 esistevano ricette che prevedevano castagne secche cotte in acqua salata con aggiunti pezzi di lardo o castagne arrosto avvolte con fettine sottili dello stesso.
Se conservato male, troppo a lungo e sottoposto a sbalzi termici, all’aria e alla luce, lo strato superficiale diventa rancico (rancido). “Me s’ė rancichito lo lardo”; “Si rancicu pegghjo de lo lardo”. Da alimento contadino, semplice e umile come la gente che lo consumava, da potenziale energia per “attraversare” i duri inverni di campagna, oggi il lardo ė diventato un prodotto pregiato e ricercato, che ha cambiato la sua primordiale connotazione, da riserva energetica a bene gourmet riservato ad una cucina d’elite. Mentre nelle nostre case assistiamo a figli che lo eliminano anche dal prosciutto, mentre genitori e nonni li investono di frasi tipo: “Leete lo mejo”; “Quissu adè un peccatu mortale”; “‘N po’ de lardo mica ve ‘mmazza”; “Mannagghja a la linea e a chj va misto su la testa ‘ste cose”; “Ma magnate e state in salute”.. Loro imperterriti e sordi ad ogni richiamo, continuano “come precisi chirurghi con il bisturi”, ad intervenire su quelle povere e malcapitate fette. Senza meno temono, per qualche etto di grasso in più addosso, di venir apostrofati dalla società: “Palla de lardo”; “Lardelló”; “Lardellu”; “Si diventatu un mucchju de lardo”; “Si più largu che ardu”; “Si diventatu rutunnu”; “Te pènne lo lardo da per tutto”. E pensare che un tempo, una persona rotondetta era considerata “lu ritrattu de la salute”.
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