Li spassi umili
de li vardasci de ‘na orda

LA DOMENICA con Mario Monachesi
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Mario Monachesi

 

di Mario Monachesi

Un tempo, oltre ai giochi tradizionali, quali “tana libbera tutti”, ” li quattro cantoni”, “criscimondó”, “cambana”, “uno, due, tre…stella”, “ciuccittu”, ecc, specialmente in campagna, i ragazzi si divertivano anche con passatempi molto più umili. Con l’arrivo della bella stagione e la coseguente fioritura di ogni tipo d’erba, tra “li frichi” era usanza “strappà’ co’ le ma’ le spighe de la ‘vena (avena) e tirassele, unu co’ l’atru (o “l’atra”) su la schjina, per vedé'”, a seconda di quante ne rimanevano appiccicate “se quante moji” (mogli), o mariti (se erano ragazzine), avrebbero preso da grandi.

il-soffione “Atru spassu de stajó’ era coje e soffià'”, come fossero tante bolle di sapone, sul “soffione” o “dente di leone”, anche “pisciallettu”, un infruttescenza (palle di semi leggeri) del Tarassaco. Per lo più le ragazze, con le margherite, dette anche “Primavere”, facevano, intrecciandole, anelli, bracciali e collane che poi con tenera vanità si mettevano. Con le ciliegie, invece, colte a coppia e messe a cavallo dell’orecchio, ci facevano “li ‘ricchjì” (orecchini). Non era raro, ogni tanto, vedere spuntare qualche ragazzo con un filo d’erba o qualche fogliolina e ammonire “‘n’antru vardasciu” con la frase “fori verde”. L’ammonito, con minor tempo possibile, doveva “rispondere” con altro…verde. Sempre tra ” li maschji, java de moda ‘cchjappà’ li muscù d’oro, che volava tra le piante de li frutti, legaje ‘na zampetta ad un filu de lana e divertisse a vedelli volà’.

Spighe-davenaNelle serate di lucciole, i più piccolini, rapiti da quelle lucine intermittenti, le rincorrevano per acchiapparle. Chi riusciva a prenderne una, se la coccolava tra le mani, oppure, per “ammirarla” più a lungo e magari portarsela in casa, con l’aiuto dei genitori la rinchiudevano in un bicchiere tappato o barattolino di vetro. Per i bambini erano serate di magia, sottolineate anche da diverse filastrocche: “Lucciola, lucciola veni co’ me / che te daco a magnà’ e bé'”; “Lucciola, lucciola / galla galla / mitti lu piede su la cavalla / la cavalla de lu re / lucciola, lucciola veni co’ me”. “Quanno ‘sti vardasci”, nelle loro scorribande, si imbattevano nei fiori di “Sulla” (pianta foraggera) o nelle “violette jalle”, rompevano il gambo e ne succhiavano l’interno perché dolce. Oppure, nei riposini, prendevano un filo d’erba e soffiandoci in un certo modo, facevano emettere loro piccoli suoni…musicali.
Correndo a perdifiato su angoli di prati poco curati, ecco l’incontro con “l’urtica”. Chi vi cadeva sopra urlava dal bruciore. “Anche l’urtica cresce superba, / finché la fargia no’ ‘pparegghja l’erba”. I ragazzi più intraprendenti, con un pezzo di canna bucata “co’ un cortellu” a metà, facevano “lu ciuffulu”, una rudimentale versione del piffero. “Marianna co’ lu ciuffulu de canna / de canna e de cannitu, / Marianna cerca maritu”, Quando tra maschi e femmine c’era rivalità o divergenze di vedute, “Saponetta” (saputa), era l’epiteto che i maschi rivolgevano alla ragazza più coinvolta.

A quei tempi a scuola, vicina o lontana, si andava a piedi. Durante il tragitto, le femmine (sempre più dolci e tenere “de li maschj”), raccoglievano i fiori per la maestra. Si presentavano “su la cattedra”, con mazzolini di “Mariole, violette cioppe (ciocche), monichelle, campanelle, lacrime de la Madonna, coregghjole, cacarella (un fiorellino blu ad estesa), tulipà’, papaole, ecc, ecc. Era un bellissimo gesto di riverenza che gli studenti di oggi neanche si sognano. A Pasqua, con le “Pignole”, altro fiorellino blu, gli alunni facevano “l’ou pintu” (dipinto). Non mancavano, tra tutti i ragazzi, i frizzi e i lazzi:
“Chj veste de jallo, more senza proallo”.
“Te ce fa rabbia? / Mittete in gabbia! / Te ce fa tigna? / Mittete in pigna”,
“De che colore era lu cavallu viangu de Napoleone?”.
“Te vòle. / Chj? / Stucchì!”.
“Guarda ‘n po’ lli? (Il tizio di turno, guardava, ma non c’era niente…) / Ci-hi guardato, / ci-hi ‘mmirato, / ci-hi ttroato lu curtillucciu / pe’ scannatte lu cannucciu”.
“Come te chjami? / Io non me chjamo mai, me chjama l’atri”,
” Mani in alto! / Culu in basso, / pija moje e vanne a spasso.
Quando c’era da giurare qualcosa, il rito da recitare era: “Giuro, rigiuro, su la tomba d’Arturo, menzu fòri e menzu dentro, ecco fattu lu giuramentu”.



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