di Mario Monachesi
“Chj se rsumija, / se pija”. Un tempo “fa’ l’amore” significava essere fidanzati e “ji’ a fa’ l’amore”, voleva dire andare la domenica a casa della fidanzata. Successivamente si sono aggiunti anche il martedi, il giovedi ed il sabato. Il problema era come conoscersi e questo per via della “morale” dei tempi, non era proprio facile. I genitori non concedevano molte possibilità alle figlie. Le “vardasce” non godevano di molta libertà, sempre “accompagnate” sia alla messa della domenica che alle feste patronali o alle serate di ballo, sia nelle abitazioni durante il carnevale che d’estate “sull’ara”. Per i giovanotti conoscerle era “un sudà'” tra mille e più sotterfugi. Spesso le conoscenze avvenivano tramite “lu roffià”, un cosiddetto complice che accompagnava a casa della ragazza l’innamorato. Se il fidanzamento, consezienti genitori e prescelta andava in porto fino al matrimonio, “lu roffià’ s’avia guadagnato ‘na camiscia”.
Altri fidanzamenti avvenivano perché “vicinati de terrenu” e quindi con delle simpatie reciproce già manifestate. A qualche tentativo, da parte dei genitori, di imporre un fidanzato, la figlia rispondeva: “O ma’, no’ mme lu da’ u’ maritu tappu: / ce vò’ la scala pe’ salì’ lu lettu; / ce vò’ la scala de dodece pire, se nno lu tappu non ce pò salire”. “Che me ne faccio dell’omminu ciuchittu, / che monda su lu lettu comme un gattu. / Ė la ruina de lu pajaricciu”.
Fino a non molti anni fa erano usanza anche le serenate. A farle sotto la finestra della ragazza o era l’innamorato o un “canterino” incaricato. “Fiore de ruta, / te so’ vinutu a fa’ la serenata, / un core ‘ppassionatu te saluta”. “Fiore de grano, / sete la mejo rosa del giardino, / non ve fate toccà’ da tante mano”. “Fiore de lino, / si lo tuo core fosse ‘n tulipano / piantare lo vorria nel mio giardino”. Quando la prescelta acconsentiva non era raro sentirla timidamente rispondere: “Fiore de canna, / si volete ‘sto core ditelo a nonna, / che nonna lo dirà a babbu e mamma”. “Fiore de canna, / pregatela de core la Madonna, / che faccia di’ de scine a babbu e mamma”. Quando una ragazza si fidanzava “co’ unu de fori” (di un altro luogo), per lui iniziava “la caccia” (I disturbi e i dispetti) da parte dei paesani della stessa.
“Dopo lu jornu vė’ la notte, / che vai facenno tu merlu de fratte? / Che ‘ste contrade le sci vattute tutte! / Va’ a rcoje l’ossi sotto le pianghette, / non ė per te ‘ste bbelle fijolette!” “Fiore de melograno, / non serve che fai tanto lu painu, / tutti sa che si fiju d’un villanu, / zappi la tera e fai lu contadinu”. E ce n’era anche per lei: “Fiore de ficu, / sò ‘ncuntrato l’amore tuo mascherato / e sò pensato che per questo t’è piaciuto”.
Le ragazze erano davvero controllate “a vista”, oltre che dai genitori, anche dai fratelli maggiori e dal resto dei parenti. Come se non bastasse, anche i semplici conoscenti, se ce n’era bisogno, si adoperavano a fare la spia. Gli amori che sbocciavano, quindi, si reggevano almeno all’inizio, sul gioco di “calorosi” e furtivi sguardi e magari su baci rubati al primo rimanere per un attimo soli. Certamente sempre con il cuore a mille, sia per l’emozione dell’atto che per la paura di essere scoperti.
Per vedersi, rimanere vicini e magari tenersi per mano, non rimaneva, al ragazzo, che presentarsi a casa della ragazza e chiedere al padre la mano. Fatto questo, iniziava il fidanzamento, e a seguire il fidanzamento ufficiale, con lo scambio degli anelli. Doni che se l’amore un giorno, per un motivo qualsiasi, fosse finito, venivano reciprocamente ridati. Scattava lo “rdasse la robba”. “Fiore de gramaccia, /mamma me dicia ‘llontana ‘ssa canaja, / l’atra sera, ‘nfatti, me vulia ‘llongà’ sopre la paja”. E nonostante la correttezza, magari la ragazza non trovava più nuovi pretendenti: “La fija de frapija, tutti la vole, gnisciù la pija”. Per chi invece il fidanzamento continuava a gonfie vele, “l’amore” (sempre inteso come fedele impegno, dal latino “fidere”), “se facia in cucina, co’ la camera de li genitori sempre rigorosamente a porta aperta”. E ogni tanto, “co’ ‘na rasciata de gola, per fa’ vedé'” che non dormivano, ma erano brillantemente svegli. Nonostante la cortina di ferro superattiva, “quarghe toccata” sfuggiva al serrato controllo. Ed era la felicità…
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Mitico Mario..! Avendo, da parte di mia madre, un fratello più piccolo, io “Vardasciacciu, de primi anni de scola”, mi ricordo le peripezie che faceva zio per poter parlare con le ragazze..! “ppo lu fidanzamentu..!?? u ruffià, tte cce parlo io, co u padre..!(nbrau vardasciu, dde famija per bè,…e jo..pitipu pitipa…!…e a frittata è fatta, jita nportu…!”…Era proprio così, poi anche noi, prima di lasciarci un pò di libertà, non èra tanto semplice, perlomeno per me…! ma che ne dici, forse era meglio quando era peggio…!?? per ora buona notte Mario….!