di Mario Monachesi
“Di tutti i legumi / la fava è regina, / cotta la sera / scallata la matina”. La fava è un ortaggio primaverile, classificata con il nome “Vicia faba” appartenente alla famiglia delle leguminose. Si ritiene che sia stato uno dei primi legumi con cui l’uomo si sia cibato. Originaria dell’Asia minore, è sin dall’età del bronzo presente in Europa e apprezzata da egiziani, romani e greci, il primo a nominarla fu Omero nell’Iliade. Con la scoperta di Cristoforo Colombo arriva anche in America.
Nonostante tutta questa notorietà, da sempre è circondata da “una macabra nomea”, si riteneva infatti che al suo interno albergasse le anime dei morti. Credenza questa avvalorata anche da Pitagora. Al tempo dei Romani le fave venivano consumate secondo le ricette di Apicio, cioè unite a uova, miele e pepe, prima di venire mescolate ad erbe e salse. Inoltre, durante le feste dedicate alla dea Flora, protettrice della natura che germoglia, i Romani le gettavano sulla folla in segno di buon augurio.
La fava, detta dai contadini di un tempo “la carne dei poveri”, è ricca di fibre, indispensabili per il regolare funzionamento dell’intestino e per il controllo dei livelli di glucosio e colesterolo nel sangue. Nonostante l’alto valore nutritivo, risulta essere il legume meno calorico. Nelle nostre campagne e orti, tradizione vuole che venga seminata il 2 novembre giorno dei morti (comunque tra novembre e dicembre) per averla poi fresca a maggio, L’usanza indica che si inizi a mangiarla nelle scampagnate o “merenne” del 1° maggio, unita al formaggio pecorino e a vari salumi, il tutto sempre accompagnato da un buon bicchiere di vino.
Un vecchio e simpatico detto recitava: “Cojó’ cujia la fava, / issu cujia e quell’atru magnava”. La “tega” o baccello o “scorza”, contiene da 3/4 a 7/8 semi o acini e “l’acini” possono essere mangiati sia crudi che cotti, sia freschi che secchi. Oltre che con sale e pecorino, la si può gustare in porchetta, cioè in padella con finocchio, aglio, olio e sale, qualcuno vi aggiunge anche i carciofi; come condimento per la pasta: fave, pancetta e pecorino; unita ad insalate le più ricche, “fava e mela / con l’acqua alléga” o semplicemente saltata in padella.
Una volta che iniziava “a fa’ l’occhju cattiu”, quando cioè cominciava ad indurire, veniva “capata” e messa da parte per l’inverno. Quando la brutta stagione non permetteva altre verdure, specialmente in campagna la vergara ricorreva a questo legume. Allora in tavola veniva servita la “fava ‘ngreccia”, cioè la fava raggrinzita. Eccone la ricetta.
Ingredienti: 500 g di fava secca, 1/2 bicchiere d’olio, 30 g di alici, 15 g di capperi o una manciata di prezzemolo, uno spicchio d’aglio, aceto a piacere, sale, pepe. Preparazione: Mettere a bagno le fave secche la sera precedente. Al mattino buttare l’acqua e metterle a lessare in una pentola d’acqua. A metà cottura salarle e scolarle. A parte preparare il condimento, tritare le alici sott’olio, quindi aggiungere aglio, prezzemolo, capperi e continuare a tritare unendo aceto e mezzo bicchiere d’olio. Al termine amalgamare fave e salsa ottenuta. La “fava ‘ngreccia” è un piatto tipico marchigiano. Con la farina di fava mescolata all’acqua, i contadini nutrivano anche gli animali delle stalle, tori e maiali ne andavano ghiotti.
È allora il caso di chiudere questo breve e senz’altro incompleto “racconto”, con il detto: “Co’ ‘na fava, anche li contadì, pijava du’ picciù”.
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