di Mario Monachesi
“Io so’ maggio di tutti il più bello; de rose e fiori me ‘dorno il cappello, e me vaghegghjo fra tand’onore; fra l’ardri mesi io sono il mijore”. Altri proverbi recitavano (e recitano): “Aprile fa lu fiore, magghju je da colore”, “Marzu tegne, aprile depegne; chj adè velli de forma de magghju retorna”
Un tempo maggio era il mese con la più vasta gamma di tradizioni. La prima era il “cantà’ magghju”. L’ultimo giorno di aprile gruppi di giovanotti su carri ornati di frasche fiorite giravano la campagna intonando stornellate meglio conosciute come “maggiolate”. Sostando sulle aie “recavano ai villici la lieta novella”. Cioè la notizia dell’arrivo di maggio, con i suoi fiori, il suo profumo, la rinnovata vita. All’apparire dei cantori la famiglia visitata si affacciava dalla “logghja”, al termine offriva vino, uova e piccole caciotte.
Ecco parte di una “maggiolata” raccolta per bocca di un contadino di Morrovalle da Domenico Spadoni intorno al 1889: “Scusi lor signori, / che veniamo a incomodare; / quistu è l’ultimu d’aprile; / ecco maggio sta per venire. / Ben trovati, cari amici, / bona noa noi vi portiamo; / ecco maggio che noi cantiamo. / S’arrilegra ‘ste giovanette, / va per casa come saette, / tutte quante ‘nnamorate; / ecco maggio da le ‘nfiorate. / Si arrilegra ancora il merlo, / si arrilegra anche la vergara, ecc ecc”.
A Macerata Giovanni Ginobili ha raccolto altre strofe: “Se rallegra l’asinello; / va facenno jò…jò…jò… / va facenno per suo vandaggio, / fòra aprile e drendo maggio! / Se rallegra angora er merlo, / ecco maggio e maggiolino / e fiorisce la fava e lo lino, / viva, viva ‘l mese di maggio!”.
Le “maggiolate” potevano essere sia sacre che profane. Sacre se i cantori chiedevano mance per le anime del purgatorio: spesso l’obolo finiva in sonore bisbocciate, profane se oltre alle lodi alla primavera, erano anche “matinate”, cioè dichiarazioni o omaggi d’amore alle ragazze. Tra queste dediche ecco alcune soavi espressioni: “Cerchio di luna, quanto sete tonna…/ quanto t’ha fatto bella la tua mamma…/ t’ha fatto bella e t’ha messo un fiore, / t’ha messo a la finestra a fa’ l’amore; / t’ha fatto bella e te l’ha messo un gijo, / t’ha messo a la finestra a fa’ consijo”.
La seconda tradizione, è il “pianta maggio” (ramo piantato). Già i greci e poi i romani facevano processioni inneggiando a questo mese in cui la natura è in fiore e il grano inizia a spigare. “Nato o non nato / de magghju spicato”. “Aprì fa lu fiore / magghju fa l’onore”. Anche questa tradizione aveva più varianti e per ognuna un significato, Un ramoscello qualunque, sistemato sul battente dell’uscio o piantato davanti all’abitazione, era il tributo di amici, di fronte al quale il destinatario si vedeva costretto a ricambiare con vino e paste. Un ramo invece ornato di nastri variopinti, e posato sul davanzale o all’uscio di casa, unito a dediche cantate, era una precisa dichiarazione d’amore.
A Sefro i maggi erano due, uno dei giovani, l’altro dei vecchi. A Montalto sotto il “maggio” piantato in piazza si faceva baldoria per tutto il mese in onore di Bacco. Al termine veniva venduto all’asta, il ricavato andava per ulteriori bevute. Molto spesso “lu magghju” era anche motivo di liti, anche aspre. Famosa quella che dal 1873 al 1877 ha interessato Ripe San Ginesio e Colmurano. Per la pacificazione intervenne addirittura il prefetto. Molto più vicino a noi, nel 1968, Apiro litigava tra contrade per motivi inerenti questa usanza.
A Macerata, di questa tradizione si ha notizia sin dal 1580. A testimoniarlo c’è un manoscritto conservato nella Biblioteca comunale che riporta l’estratto di un processo intentato contro tale Annibale Cenzio ed altri, per taglio su proprietà altrui di più “maggi”. Un almanacco del 1783 ricorda invece l’antica usanza sempre maceratese di far esibire, nel pomeriggio del 1° maggio, ragazze vestite “alla reale” su troni sistemati in alcune vie cittadine per chiedere offerte. Nell’800 il primo maggio veniva “onorato”con una festa nella chiesa dei Cappuccini Vecchi (contrada Santo Stefano). A sera, dopo una giornata di suoni e danze, la banda faceva ritorno in città con il seguito di molta gente e un avanguardia di “vardasci” saltellanti e recanti in trionfo “lu magghju”, ossia rami di biancospino fiorito.
Con il tempo anche queste due tradizioni sono piano piano sparite. Oggi al “piantà magghju” diamo perlopiù il significato “hi piantato magghju?”, hai fatto l’amore? “Do’ vai a piantà magghju?, dove vai a spassartela?
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Ho incontrato dopo anni Mario alla mostre nello spazio espositivo CRAZI nella zona industriale di Corridonia, di due giovani pittrici e un noto pittore – Gabriella Cesca, Daniela Ripani e Mario Migliorelli – ed è stato un piacere. Leggo sempre di lui, che non si fossilizza nei bar a parlare di pallone e di donne, ma studia, ricerca, produce, tramandando le nostre tradizioni sul nostro seguitissimo giornale on line Cronache Maceratesi. L’unico mio cruccio nei confronti di Mario Monachesi è che, polemista come sono, con lui non ho fatto mai cagnara. Significa che egli è un essere a tutto tondo. Senza il quale la NOSTRA Macerata sarebbe ancora più povera.