di Mario Monachesi
Prologo alle “velegne” erano, e almeno per chi fa ancora cantina sono, i lavori di sistemazione e pulizia di botti e tini. Si udiva ovunque il rumore del mazzuolo. Una volta rimessi in sesto doghe e cerchi allentati, le botti venivano tenute a bagno per qualche giorno, affinché il legno riprendesse la sua normale consistenza. La pulizia di quelle più grandi (ora non più perché sono oramai quasi tutte di cemento o acciaio o resina), che un bambino o la persona più mingherlina delle famiglia, vi estrasse attraverso “l’osciolu” (una piccola apertura sul davanti). Solo così si poteva togliere per bene la “rascia”, cioè la posa che il vino precedente vi aveva depositato. Altri invece per la pulizia usavano “lu bojènde” (o “sbojende”), cioè mosto fatto bollire e passato all’interno con l’aiuto “de lu scupittu de melleca (spazzola di saggina).
Arrivato il giorno della raccolta, grandi e piccoli invadevano con la solita allegria tutta campagnola vigne e filari isolati. Non mancavano quindi gli onnipresenti canti a dispetto: “Avandi a casa tua / c’è ‘n arberellu d’ua / quella la dote tua / se te voli marità'”, o vere e proprie composizioni poetiche: “Quanno è tembu de moscatello / la villanella a rcoje lo va, / ce ne rrembie ‘n canestrellu, / co’ la mamma lo va a regalà. / La domenneca matina / le rosce carzette, / le fittuccette, la cindurella. / Lu core m’ha rubbato la villanella: / m’ha rubbato lu core e m’ha tradito: / m’ha fatto ‘nnammorà po m’ha lassato”.
Dai cesti l’uva passava nelle cassette sistemate sopra ai carri trainati dai buoi. Una volta a casa, e depositata dentro “la canà” (grande secchio di legno, oggi di plastica), essa veniva “pistata” (pigiata) a piedi scalzi dopo di che, per ricavarne ancora succo, “li graspi” seppur già spolpati venivano ulteriormente passati attraverso “lu trocchju” (torchio). L’uva in sovrabbondanza, o spesso quella padronale, veniva invece portata nei centri di raccolta. Per tutto il periodo si assisteva allora ad un via vai di carri, ad immancabili sciami di api ed a un forte odore di mosto ovunque. Mosto che veniva usato (ancora si usa) sia per i dolci (ciambelloni e biscotti), che per i cibi (“pulenta co’ la sapa”, cioè condita con il mosto stracotto e li “sughitti”, polenta con il mosto al posto dell’acqua e farina nuova di mais con l’aggiunta di noci e mandorle). Ancora più indietro nel tempo si usava inzuppare nel mosto bollente i fichi e previa scolatura, li si passava, per essere meglio conservati, nella farina.
Tra i vitigni presenti nelle nostre zone, negli anni ’60 si annotavano i seguenti: “Lo zi vì, la cimiciara, lo virdicchjo, la marvascia, lo moscatello, lo moscatello frangese, la rimbivótte, lo trebbià’, ll’ua de Sanda Maria, la verzamina, ll’ua passera, l’ua grufólata, lo chiapparô, lo duréllo, lo vaccino, ll’ua cella, la doratella, ll’ua puttanella, ll’ua allocca, ll’ua corna o anche a óu de gallu, ll’ua peparina, ll’ua de li cà, ll’ua de la Madonna, lu pambunu tunnu, lo greco oppure lo maceratì, lo vissanello, l’arivona, lo sagnóese, la pimpinella, lo vordó, lu vrugnintì”.
Oltre al vino normale o cotto era tradizione fare anche “l’acquaticcio”, un vino leggero e dolce ottenuto facendo scorrere l’acqua attraverso le vinacce. Questo accattivante vinello andava però consumato entro pochi giorni. Un proverbio infatti recitava: “L’acquaticcio, du’ jorni è bbono e dopo è tristo”.
Altri proverbi sul vino recitavano:
“Lo vi’ adè lo latte de li vecchj”;
“Lo vì’ adè la poccia de li vecchj”;
“Mejo puzzà’ de vì’ che d’ojo sando”;
“Li danni che fa l’acqua, lo vì’ no’ l’ha fatti mai”;
“Lo pozza fa pure le cerque”;
“Da saviu le pensi, da ‘mbriacu le dici”;
“Lo vì’ prima de la minestra, te fa vedé’ lu medicu da la finestra”;
“Mejo caccià’ ‘n occhju a un prete, che fa cascà’ ‘na goccia de vì'”;
“L’acqua fa pisciare, lo vino fa candare”;
“Lo vì’, piace pure a li purgì'”.
Ai frati, invece, è stato appiccicato questo modo di dire: “Porca fregna dice li frati quanno velegna”. Un’ ennesima usanza voleva che venissero appesi ad essiccare alle travi o, addirittura sotto le reti dei letti, coppie di grappoli d’uva da riutilizzare per i dolci di Natale o mangiarne i chicchi il primo di gennaio perché, una tradizione voleva e ancora vuole, che chi mangia tanti acini d’uva, poi conterà tanti soldi nel corso dell’anno.
Buon pomeriggio di lettura. Grazie...
Per poter lasciare o votare un commento devi essere registrato.
Effettua l'accesso oppure registrati