di Gianluca Ginella
Omicidio di Pietro Sarchiè, nella sentenza il giudice Chiara Minerva evidenzia il ruolo attivo che avrebbe avuto Salvatore Farina: «alcune incongruenze del loro racconto lasciano addirittura pensare che proprio il ragazzo possa essere stato il principale artefice dell’omicidio» è scritto nella sentenza. Il processo per l’omicidio del commerciante di pesce di San Benedetto, Pietro Sarchiè, si è chiuso il 13 gennaio scorso con la condanna all’ergastolo di entrambi gli imputati, Giuseppe Farina, 42 anni, e il figlio Salvatore Farina, 21, entrambi catanesi. Sentenza arrivata con rito abbreviato. Il giudice si è poi preso sei mesi per depositare le motivazioni di una dettagliata sentenza. 229 pagine in cui ricostruisce ogni passaggio del delitto, dalle indagini iniziali, alla ricostruzione dell’omicidio passo dopo passo, alle dichiarazioni rese dagli imputati.
In particolare di questa sentenza interessava comprendere il motivo per cui il giudice avesse condannato all’ergastolo non solo il padre, reo confesso, ma anche il figlio, che aveva sempre negato la sua partecipazione al delitto e per il quale la procura aveva chiesto 20 anni. Da quanto emerge dalle motivazioni della sentenza per il giudice, letti gli atti, sentite le testimonianze, gli imputati hanno fornito ricostruzioni non veritiere e entrambi hanno collaborato in ogni fase del delitto e pure nelle operazioni per far sparire il furgone di Sarchiè. Detto che la mattina del 18 giugno 2014, quella del delitto, Farina junior era andato di buonora a San Severino, una volta tornato, in base ai tracciati telefonici i suoi spostamenti «si sono raccordati con quelli del padre, seguendolo pedissequamente da Seppio (nel comune di Pioraco, dove è avvenuto l’agguato, ndr) a Valle dei grilli (a San Severino, dove il corpo di Sarchiè era stato seppellito, ndr) e di ritorno da tale luogo». Avrebbe inoltre partecipato all’attività di smaltimento di rottami del furgone.
«E’ certa la presenza di Salvatore Farina al fianco del padre nelle ore in cui quest’ultimo commetteva l’omicidio e l’occultamento del cadavere di Pietro Sarchiè, portandosi via anche il furgone della vittima» dice il giudice. Mentre non è credibile la versione data da Giuseppe Farina in cui afferma che il figlio era stato mero spettatore di ciò che stava accadendo. «Il racconto di Farina appare animato dall’evidente oltre che umanamente comprensibile scopo di addossarsi ogni responsabilità dei fatti accaduti e di scagionare completamente il figlio». Inoltre il giudice ritiene «assolutamente inverosimile» il racconto in cui Farina senior dice che Sarchiè, dopo essere stato ferito nel luogo dell’agguato, sarebbe stato colpito da un solo colpo di pistola e che si sarebbe lasciato trasportare sino a Valle dei grilli. Per il giudice non è credibile che abbia guidato il furgone lungo strade piuttosto impervie e controllato l’ostaggio al tempo stesso. «La necessaria presenza di un complice, con funzioni di supporto materiale nel compimento dell’impresa delittuosa, si impone logicamente anche con riguardo alla fase successiva all’arrivo a Valle dei Grilli, ipotizzando che Pietro Sarchiè fosse stato tramortito, già al momento dell’agguato».
Ma un punto cruciale è il fatto che Giuseppe Farina non sia stato in grado di descrivere nei dettagli la scena del delitto e, ad esempio, dove si trovasse rispetto a Sarchiè quando gli sparò il colpo di grazia alla testa. «Sembrerebbe possibile ipotizzare che Giuseppe Farina non sia stato in grado di descrive nei dettagli la scena del delitto, per non averla vissuta in prima persona e che, quindi, ben più rilevante sia stato il ruolo di Salvatore Farina nella commissione dell’omicidio, che il padre potrebbe aver voluto fino all’ultimo nascondere». Per il giudice non è possibile che un momento tanto drammatico possa essere stato dimenticato. Il giudice aggiunge che «allo stato l’ipotesi che a sparare il colpo di grazia a Pietro Sarchiè sia stato Salvatore Farina rimane tale, in quanto, sebbene suggestiva, non può evidentemente trovare riscontro negli elementi di prova messi a disposizione dalle indagini». Un tema che il giudice riprende dicendo che gli imputati non hanno saputo dare una versione logica dei fatti, anzi «alcune incongruenze del loro racconto lasciano addirittura pensare che proprio il ragazzo possa essere stato il principale artefice dell’omicidio».
In definitiva, comunque, per il giudice «Padre e figlio hanno collaborato alla commissione del delitto, così come nell’occultamento del cadavere e alla rapina del furgone». Una sentenza che questa mattina hanno visionato i familiari di Pietro Sarchiè, i figli Jennifer e Yuri e la moglie, Ave Palestini. «Noi vogliamo la riconferma degli ergastoli se ci sarà il processo d’appello – hanno detto i familiari del commerciante ucciso -. Perché per noi di appelli non ce ne sono. E questo è un dolore che porteremo per sempre. L’ergastolo non ci toglie il dolore ma ci fa capire che la giustizia c’è».
Poi i famigliari hanno voluto ringraziare i loro avvocati, i legali Mauro Gionni e Orlando Ruggeri, i carabinieri che hanno lavorato alle indagini, la procura di Macerata (le indagini sono state condotte dal procuratore Giovanni Giorgio e dai sostituti Stefania Ciccioli e Claudio Rastrelli) e il giudice Minerva. Letta la sentenza, i difensori degli imputati, gli avvocati Mauro Riccioni e Marco Massei, potranno decidere di presentare appello.
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