E dopo la mietitura è tempo
“de lo vatte”

IN CAMPAGNA - Nonostante il caldo e l'immane fatica, non mancavano allegria e gli immancabili canti a "batoccu" che rimbalzavano "da lu varcó a lu pajà" e da "lu pajà a lu pulà"
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Trebbiaturadi Mario Monachesi

Portata a termine la mietitura, “radunato” e “fatto lu varcó” (condotto il grano sull’aia e sistematolo a mo’ di barca), intanto sono trascorsi più o meno quindici giorni, arrivava l’atteso appuntamento “de lo vatte”. Della battitura o trebbiatura. Senza dubbio, un’altra occasione di festa. Di fatica e festa per gli adulti, di esclusiva festa per i più piccoli. Prima della comparsa della trebbiatrice, il grano veniva battuto a mano, con l’ausilio di frusti formati da due bastoni, uno più lungo, l’altro più corto legati non rigidamente in modo che quello più corto, muovendosi liberamente, potesse battere sulla spiga e quindi dividere il chicco dalla paglia e dalla pula. Subito dopo la pula veniva separata dal chicco usufruendo del vento. Con gli anni, sui covoni preventivamente sparsi sulla parte mattonata dell’aia, si è incominciato a far passare in un continuo movimento circolare buoi o cavalli bendati, affinché con gli zoccoli facessero uscire il grano dalla spiga. Successivamente è arrivata, ma non da tutti subito accettata, la trebbiatrice. Giungeva sull’aia trainata dai buoi, più avanti è arrivato il trattore e il traino si è arricchito della scala per la paglia, quella per la pula e il carro degli attrezzi.

Trebbiatura2_“‘Mbostata la machina” e sistemate le scale, il trattore, tramite “lu cintò”, una lunga cinghia di trasmissione, azionava il tutto. Il via alla “battitura” veniva spesso dato da un urlo di sirena. Le persone “su lu varcó”, dopo aver tagliato “lu varzu”, immettevano i covoni nella trebbiatrice. Più tardi l’operazione sarebbe diventata più facile per l’aggiunta dell’imboccatore. Così facendo, davanti alla scala più grande cresceva “lu pajà”, davanti a quella più piccola ” lu pulà”. Dalle bocchette posteriori della trebbia uscivano i chicchi di grano che andavano a riempire i sacchi, che pesati “su la vascula” (bascola) venivano provvisoriamente appoggiati sotto la capanna. La fatica e la polvere facevano si che le donne di casa e i ragazzi passassero spesso tra gli operai con acqua spruzzata di limone, e vino, freschi di pozzo. Anche i pasti dovevano essere numerosi. Si cominciava con la colazione, tra le 3 e le 4 del mattino venivano serviti caffè d’orzo, latte e “ciammellottu”. Intorno alle 8, oca o altra carne con pomodori arrosto, a metà mattinata, “merennetta” a base di bruschetta, “‘nzalatella” ( insalata) di tonno, pomodori, cetrioli e cipolla o pane e salato ( ciauscolo o lonza). A pranzo, veniva servita la stracciatella, poi “lesso” ( bollito) di gallina e cicoria.

“L’opere” mangiavano seduti per terra, attorno ad una guida di lino stesa all’ombra di una pianta, “li pajaroli” seduti ad un tavolo sistemato sotto una seconda ombra, ed infine ” lu fattó’ e li patrù”, al fresco di un angolo riparato dalla polvere. Nel pomeriggio, se la trebbiatura andava a lungo, un’altra “merennetta” a base di pomodori, zucchine al forno e di nuovo “salato”. A cena, qualunque ne fosse stata l’ora di fine lavori, venivano serviti “li maccherù” (tagliatelle fatte a casa, al sugo di carne) poi arrosto di pollo, oca, papera e maiale con contorni di pomodori, zucchine, peperoni e melanzane al forno, o semplice insalata. La ricca cena terminava con crema e ancora “ciammellottu”. In tempi oramai lontani, i costumi dai colori sgargianti delle donne richiamavano alla perfezione il giallo delle spighe, il rosso della trebbiatrice e il verde della natura d’intorno. Molto più vicino a noi, gli uomini indossavano calzoni azzurri, camicie bianche e annodato al collo un foulard quasi sempre rosso. Le donne invece vestaglie fiorate di cotone e larghi cappelli di paglia.

Nonostante il sole, quindi il caldo e l’immane fatica, non mancavano allegria e canti. Melodie, stornelli (“‘ffaccete alla finestra ricciolona / de ‘ssi capiji ne vorria ‘na rama / pe facce all’orolojio ‘na catena. / Fiore dell’ormo / per le vellezze tua vaco penànno / che ‘spetti, valla o tojiete de torno”) e gli immancabili canti a “batoccu”, rimbalzavano “da lu varcó a lu pajà” e da “lu pajà a lu pulà”. In questo giorno si accostava all’aia, oltre a qualche povero, il frate cercatore. Dentro al suo sacco di tela bianca, “lu vergà” o la vergara versavano qualche “jiumella de grà’ appena battuto”. Se era una festa lo doveva essere per quante più persone possibili.



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