Matteo, morto per colpa della sua malattia, ma anche della nostra

OVERDOSI - L'intervento del direttore del Dipartimento Dipendenze Patologiche Av3 dell'Asur dopo la tragica scomparsa del 33enne di Tolentino

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gianni_giulidi Gianni Giuli *

Con queste mie riflessioni vorrei ritornare sulla recente morte per overdose di un ragazzo di 33 anni (leggi l’articolo). Matteo era un paziente del Sert di Macerata,  l’ho conosciuto per poco tempo, come spesso succede per il mio ruolo di capo dipartimento. Ma la sua morte mi ha toccato molto e ha richiamato alla mente tutti i ragazzi  scomparsi per la stessa causa e che ancora sono impressi nella mia memoria. Le Marche sono la seconda regione in Italia per morti di overdose da eroina, seconde solo all’Umbria: i decessi per 100.000 abitanti sono 2,8% per le Marche, dove la media nazionale si attesta intorno all’1%. Cosa si può pensare di queste morti e di tanti altre “overdosi bianche”, cioè di quelle non conosciute, perché fortunatamente non hanno avuto come esito finale la morte della persona? Non sono riuscito a darmi delle risposte ma, più che altro, il continuo pensare a questi tragici eventi legati alla droga, mi ha sollevato una domanda: Ho fatto tutto quello che era in mio potere per evitare la morte di Matteo? Ed io la pongo anche a voi che leggete, avete fatto tutto quello che era in vostro potere per evitare la morte di Matteo? Sì, ce lo dobbiamo chiedere tutti, perché  quando c’è un’inspiegabile morte per overdose di un giovane, l’impotenza che ci invade, la rabbia che ci prende, il dolore che ci pervade comportano una corsa di tutti i noi, compresi i media, nella ricerca della responsabilità (della struttura sanitaria, della Comunità, della famiglia, della società ecc.). Un tentativo di collocare le responsabilità sugli altri per non guardare i nostri  limiti e le nostre responsabilità. Di sicuro l’atto finale di quello che è successo è dovuto al comportamento di Matteo che, dopo due anni di comunità terapeutica, ha cercato di nuovo la droga e ne è rimasto ucciso iniettandosela, quindi non parlo di responsabilità diretta ma di una corresponsabilità  di tutti noi.

Il meccanismo di difesa che più usiamo per liberarci dai sensi di colpa è individuare le responsabilità di quello che accade nell’altro, in un capro espiatorio che in qualche maniera assume su di sé la colpa dell’evento. Apparentemente questo ci fa stare meglio, ci fa tornare in una società, in un territorio, in una città, nella nostra famiglia, ci permette di riimmergerci nel nostro vivere, nella nostra tranquilla quotidianità, insomma di mettere lo sporco sotto il tappeto. Vorrei fare un’analisi con  voi – cittadini, genitori, insegnanti, imprenditori, religiosi, politici, associazioni, medici, operatori di comunità, forze dell’ordine – di quello che significa essere dipendenti  da una droga o da altro (per es. dal gioco), di quanto questo disturbo psichico che si instaura sia potente e condizioni in modo importante i comportamenti delle persone. Quando siamo di fronte a queste malattie di dipendenza ci aspettiamo che qualcuno ci dia una ricetta salvifica, una sorta di miracolo che riesca a tirar fuori un giovane da questa grave problematica.

Matteo Romagnoli

Matteo Romagnoli

Intanto vi dico che non esiste una ricetta salvifica e di stare lontano da chi vi si propone come unica risposta alla dipendenza. Come medico-psichiatra, continuo a studiare le neuroscienze, che per fortuna negli ultimi 10 anni hanno fatto passi da gigante nella conoscenza del funzionamento cerebrale. Nella malattia da dipendenza una delle cose che ci hanno insegnato le neuroscienze è che esiste una “memoria biologica” del piacere dato dall’uso di sostanza. Ciò significa che il cervello ricorda il piacere legato all’uso per anni, forse per sempre. Il ricordo può essere evocato da un odore, dalla vista di una persona, dalla vista della sostanza, o da  un malessere interiore acuto o prolungato nel tempo. In tutte queste situazioni la persona che ha fatto uso di sostanza viene posta di fronte ad una scelta: un vantaggio immediato dato dal piacere dell’uso di sostanza, quindi l’agire di un comportamento automatico, istintuale, quasi animale direi o una risposta più razionale che protegga dall’uso valutandone tutti gli aspetti negativi e privilegiando altre scelte.

Pensate  a quando siete affamati e vedete il vostro piatto preferito (per es. una fetta di torta Sacher)… nel vostro organismo accadono cose che vi spingono verso il cibo: l’acquolina in bocca,  un buco allo stomaco, una sorta di ansia. Ora dovete decidere se la vostra fame è vera o indotta dalla vista del cibo, dovete decidere se mangiare quel pezzo di torta che vi darebbe un piacere immediato o se non mangiarla perché questo comporterebbe un accumulo di calorie. Pensate a questa bilancia decisionale in una spinta un milione di volte più potente del richiamo della vostra fetta di torta: un richiamo dato dalla droga. Ho semplificato per farvi capire in che situazione è chi ha fatto uso droga quando, per una delle ragioni descritte sopra, ricorda il piacere dell’uso e ne è spinto al riutilizzo. Noi tecnici la chiamiamo “ricaduta”, e questo è il grosso problema di tutte le dipendenze: la ricaduta avviene appunto quando la “memoria biologica” del piacere dato dall’uso di sostanza prende il sopravvento sulla scelta razionale.

Il momento di fragilità più grande per chi è dipendente è quello della “fine” della terapia, sia essa in Comunità o in seguito ad un trattamento ambulatoriale. In quel momento c’è il rischio maggiore, perché il cervello è più sensibile all’effetto della sostanza e la persona deve ricominciare ad agire con comportamenti autonomi, scelte di vita, nuove relazioni, rivedere vecchie relazioni, trovare lavoro, insomma rimettersi in società in maniera autonoma. Questo momento prima o poi arriva e non lo si può evitare, a meno che non pensiamo di far rimanere la persona per sempre in ambiente protetto.

In quale situazione si sono trovati Matteo e altri ragazzi come lui nel momento in cui, dopo molto tempo di cura, hanno cercato l’eroina? In una situazione nella quale il loro cervello indebolito, fragile e più sensibile è stato avvelenato da un’eroina più pura, reperibile oggi sul mercato. Ma allora mi direte: “noi non potevamo fare nulla.” Su questo non sono d’accordo. Matteo aveva bisogno di avere un’alternativa all’uso di droga, un’alternativa alla droga che dilaga nel nostro territorio, ma si è ritrovato in una società dove i rapporti relazionali sono falsati, più costruiti sulla convenienza che sulla solidarietà, in un mondo “liquido”, mentre lui aveva bisogno di punti di riferimento solidi, in una società dove la cultura della droga è ormai accettata a tutti i livelli. E vi ricordo che quella società siamo noi!

Allora l’altra domanda potrebbe essere: “non si esce dalla tossicodipendenza ?”. E io vi dico che è difficile, è  un percorso lungo, ma lo si può fare; il cervello umano fortunatamente è plastico, quindi può tornare nel tempo ad un funzionamento adeguato ma la persona ha bisogno di una rete di supporto, una rete di relazioni, non bastano i medici e le comunità, serve che tutta la società prenda atto di questo e attivi le proprie risorse. Sicuramente qualcuno, per tranquillizzare la propria coscienza, avrà pensato di Matteo che  era un tossico, che era logico che facesse quella fine, che non si poteva fare nulla se non mettere lo sporco sotto il tappeto e tornare alla nostra vita tranquilla. Spero che le morti di Matteo, di G., di M., di T., di N., di P., di C. servano invece a svegliare le nostre coscienze, servano a rifiutare e a combattere realmente la cultura e l’accettazione della droga e servano a farci capire le nostre corresponsabilità e non solo cercare quelle degli altri.

Venerdì con alcuni colleghi sono andato a Perugia, dove ci aveva convocato il Capo Dipartimento Nazionale Antidroga   Giovanni Serpelloni che, insieme alle forze dell’ordine e in particolare con i R.I.S (il reparto investigazioni scientifiche dei carabinieri), ci ha aggiornato su un’ondata di nuove droghe che stanno arrivando, esse possono essere acquistate attraverso internet e vengono spedite direttamente e in modo riservato nelle abitazioni dei  nostri figli. L’Italia per fortuna è il paese Europeo dove queste nuove droghe si consumano di meno, ma bisogna agire velocemente. I Servizi sanitari dedicati e quelli di emergenza sanitaria hanno bisogno di una formazione costante (pensate che in un anno sono state individuate 800 nuove droghe), poiché non sappiamo quali sono i danni acuti e cronici provocati da molte di esse. A breve il Dipartimento Nazionale Antidroga metterà a  disposizione un software per bloccare su computer o smartphone dei nostri figli i siti individuati che commerciano queste pericolose sostanze.

Giovanni Serpelloni ha anche detto che l’informazione e la prevenzione devono partire con i nuovi genitori al momento del concepimento. E io sono d’accordo in quanto credo che il mestiere di genitore oggi sia difficile e vada supportato fin dall’inizio. Ma si è parlato appunto anche di corresponsabilità di tutta la società: la droga è un’emergenza sanitaria e come tale va trattata, non si può far finta che non esista il problema. E’ solo con la diminuzione della domanda di droga che si limiteranno i danni sui nostri giovani. Prendiamo atto tutti quanti (cittadini, genitori, insegnanti, imprenditori, religiosi, politici, associazioni, medici, psicologi, infermieri, responsabili e operatori di comunità, forze dell’ordine) che è necessario cambiare la cultura sul problema, è necessario affrontare la problematica da un punto di vista scientifico e non ideologico, senza silenzi, alzando magari i toni, aumentando la repressione, considerando che anche l’acquisto di un solo spinello fa guadagnare le narcomafie. Lottiamo insieme per i ragazzi che sono morti a causa della droga e per i loro genitori, per il dolore che questi ultimi hanno provato e provano ancora per la  perdita dei loro figli. Lottiamo pensando che nessuno è totalmente esente da questo problema e non pensando sempre che i cambiamenti dipendano dagli altri, ma che partono da noi. Chiudo con una frase di Jiddi Krishnamurti, filosofo indiano che ha molto scritto sulla vera libertà dell’uomo: “Non è segno di salute psichica adattarsi ad una società malata”.

* Gianni Giuli, direttore Dipartimento Dipendenze Area Vasta 3



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