di Maria Stefania Gelsomini
(foto di scena di Alfredo Tabocchini)
Finisce senza applausi la Carmen dello Sferisterio, tutta colpa della pioggia. Dopo un’ora e mezzo circa dall’inizio dello spettacolo, quando ormai dopo i rovesci torrenziali del pomeriggio il pericolo sembrava scampato, il primo patatrac. Le nuvole minacciose che incombevano sabato sullo Sferisterio, e che hanno risparmiato La Bohème, hanno invece finito per rovinare ieri sera il debutto dell’opera di Bizet, in una serata dall’atmosfera sottotono sferzata da un freddo invernale e caratterizzata da un paio di interruzioni. Una poco prima dell’intervallo, proprio all’inizio dell’aria “La fleur que tu m’avais jetée…” in cui Don Josè confessa il suo amore a Carmen: quattro gocce, ma sufficienti a convincere gli orchestrali a riporre i loro strumenti nelle custodie e a causare un fuggi fuggi tra il pubblico, che ha lasciato ampie zone vuote in platea. Una seconda lunga interruzione all’inizio del quarto atto, con gli spettatori sempre più infreddoliti rimasti ad aspettare stoicamente la ripresa della recita. A mezzanotte e tre quarti, dopo venti minuti di pausa, Francesco Micheli scende a parlare col direttore d’orchestra, si aspetta ancora, si chiede al pubblico di avere pazienza, si spera nella clemenza del tempo. Poi, quando è quasi l’una, l’annuncio del direttore artistico, l’ultimo estremo tentativo: “l’orchestra in queste condizioni non può proseguire, ma vogliamo continuare ad ogni costo lo spettacolo, ci stiamo organizzando per concluderlo solo con l’accompagnamento del pianoforte”. Annuncio accolto con entusiasmo e riconoscenza dagli ultimi irriducibili spettatori che fino a quel momento hanno resistito alla tentazione di abbandonare l’arena. Ma non appena pronunciate queste parole, si scatena il diluvio. Non c’è proprio niente da fare, finisce così, tristemente e senza gloria per nessuno. Che peccato, uno stillicidio, in ogni senso. E una sofferenza per i cantanti, eroici ad esibirsi in condizioni climatiche veramente difficili per la voce, costretti a snervanti attese e inevitabili cali di tensione e concentrazione, privati dell’applauso finale.
Perciò raccontare questa Carmen non è facile. Le avverse condizioni hanno influenzato lo svolgimento dello spettacolo e l’hanno inevitabilmente penalizzato. A partire dalla compagnia di canto, che ieri sera, con un’unica eccezione, non ha saputo dare il meglio di sé, almeno rispetto alla prova generale in cui tutti i cantanti erano sembrati più in forma. Non fosse stato per la straordinaria performance di Roberto Aronica, che torna a cantare a Macerata dopo ben quindici anni, con la sua ormai ventennale carriera internazionale, la bellezza e la potenza della sua voce, la tecnica sopraffina con cui affronta qualsiasi ruolo del suo ormai ampio repertorio, purtroppo non ci sarebbe granché da dire. Il tenore romano si trova molto a suo agio nell’affrontare personaggi irruenti, grintosi, dai risvolti sanguigni, e la maturazione vocale raggiunta rende Don Josè un ruolo perfetto per le sue corde. Una sicurezza insomma, su qualsiasi palco e in qualsiasi condizione meteo. Veronica Simeoni canta Carmen, ma non le assomiglia, o almeno non assomiglia molto al personaggio che la regista Serena Sinigaglia aveva raccontato: una Carmen passionale, carismatica, cupa, senza fronzoli pittoreschi. Una ladra e una prostituta, “dotata di un erotismo animale”. Ieri sera sul palco c’era più una Carmen languida e capricciosa, dall’aspetto e dai modi quasi mascolini, e i continui ancheggiamenti della cantante non sono bastati a trasmettere quella sensualità carnale che Carmen dovrebbe esprimere con la propria personalità e soprattutto attraverso il suo canto.
L’Escamillo di Gezim Myshketa, giovane baritono dalla voce piuttosto scura, al di là della fisicità e della disinvoltura recitativa, vocalmente non ha brillato ed è parso più emozionato e meno spigliato rispetto alle prove, anche nella celebre aria Toreador. Non convince neppure la Micaela della giovanissima Alessandra Marianelli. Un’anima ingenua che si avventura spaesata nelle periferie urbane frequentate dagli zingari e tra le montagne dove si nascondono i due amanti Carmen e Don Josè sempre con il suo abitino di pizzo e la borsetta a tracolla. Un’interpretazione caratterizzata da note a volte urlate e da una voce che, per una cantante di soli ventisei anni, mostra di ballare troppo pericolosamente negli acuti. Di nuovo peccato.
La Sinigaglia, regista sensibile e raffinata, ha tentato di rendere, con poco (pochi soldi, pochi elementi scenici), un’idea forte e questa essenzialità si percepisce: intanto via folcloristiche nacchere, ventagli di pizzo, passi di flamenco e costumi gitani, siamo ai giorni nostri, ai Rom degli anni Duemila. Ma forse qualche transenna arrugginita, qualche cassa di plastica colorata e qualche mucchio di detriti non sono bastati a riempire un palco denudato che si fonde cromaticamente e simbolicamente col lungo muro dello Sferisterio, e a rendere la drammaticità e il degrado della periferia metropolitana che voleva raffigurare.
Belli ad esempio i contrasti tra le schiere rigide di poliziotti vestiti di nero e le frotte scomposte delle sigaraie dai costumi color sabbia e cipria, deliziosi i bambini zingarelli del coro, coinvolgenti i balli sfrenati dei gitani in preda all’alcol, ma visti e rivisti gli ingressi di coro e cantanti dalla platea. E poi Carmen in pantaloni, cappotto e gilet, tatuata come un marinaio che entra parlando al cellulare sembra più una donna in carriera, concede poco spazio alla sensualità. E la conferma arriva poco dopo quando attacca l’Habanera, l’aria più celebre dell’opera: esecuzione corretta, ma è più suadente che magnetica.
Il quarto atto non è andato in scena, ma resta nel racconto della prova generale. Protagonista assoluta è ormai la tragedia: la follia omicida annunciata di Don Josè e la morte annunciata di Carmen, che l’ha abbandonato per Escamillo e si farà accoltellare pur di difendere la sua scelta e la sua libertà. Ma questo ieri sera non si è visto. Ieri sera l’opera si è conclusa bruscamente con la minaccia di Don Josè a Carmen, pronunciata mentre la sta lasciando per andare dalla madre morente, e sapendo folle di gelosia che lei è già innamorata del famoso torero: “Sarai contenta… io parto… ma ci rivedremo!…”. Per il pubblico invece queste parole devono suonare come un augurio e una promessa. Purtroppo esistono, in teatro come nella vita, serate infelici in cui tutto sembra girare per il verso sbagliato. Capita, andrà sicuramente meglio nelle prossime repliche, il 28 luglio, il 3 e l’11 agosto.
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LE ALTRE RECENSIONI
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Mi dispiace, ma ieri sera, visto l’annuncio del maltempo, era da rimandare senza esitare e basta. Un vero peccato.
Mi viene da chiedermi: chi ha ucciso veramente la Carmen, chi ha deciso che doveva andare in scena nonostante l’annunciato nubifragio?
La Carmen della Sinigaglia meritava un’altra atmosfera anche psicologica degli spettatori, perchè malgrado la scarna ambientazione ce l’ha messa tutta a rendere ancora più avvolgente lo Sferisterio , a sfruttarne lo spazio scenico come non s’era mai visto. Io di questa Carmen conservo dei veri e propri quadri , dei fotogrammi altamente suggestivi grazie ai costumi, la coreografia e al sapiente impiego delle luci che coi loro tagli hanno restituito, scena su scena, tutta quella corporeità che scarseggiava a livello scenografico e hanno dato spessore intimistico-passionale alla sua rivisitazione. Indimenticabile la processione in nero delle anziane donne ,che attraversa tutto lo Sferisterio da parte a parte.
Certo, se ci si concentra sulle cassette dell’acqua minerale, le borse di plastica, le transenne , i pantaloni della Carmen o le due bottigliette di vetro trovate per terra che lei suona al posto delle nacchere mentre balla inventando la sua canzone per Josè, si finisce per guardare al dito anzichè alla luna.
gent.Tamara Moroni però carmen con il cellulare no …..il cellulare no…….. .Un bello e sensuale flamenco non era meglio delle bottiglie trovate per terra.
Peccato, con tutte quelle transenne in ferro non sarebbe stato male vedere qualche fulmine. La giusta punizione per aver ammazzato Bizet in questa maniera indegna…
pippo71
del cellulare ne avrei fatto a meno anche io, sinceramente. Ma l’ha inserito in apertura, e credo la regista l’ abbia fatto per presentare così la sua Carmen al pubblico. Un biglietto da visita inequivocabile come avvertenza, che non stava per andare in scena la Carmen che ci si aspetta e che la Carmen , è soprattutto qualsiasi Carmen , di ieri, di oggi, di domani, senza tempo, senza fissa dimora, che può essere sè stessa a Siviglia come in qualsiasi altro posto della terra ,che non ha bisogno di elementi folkloristici per mettersi in scena sul pacoscenico più ampio che è il mondo ,dove vivere il tempo in sorte che spetta alle donne come Carmencita, volitive, passionali, amanti della libertà, fuori gli schemi, zingare in senso nobile.
Jamais Carmen ne cédera!
Libre elle est née et libre elle mourra!
Invece per le bottigliette no, confermo che per me sono la trovata artistica più originale e più consona a questa regia. Comunque, io ho trovato la Simeoni molto sensuale, sfrenatamente sensuale nella gestualità in alcuni momenti, anche così vestita o forse proprio perchè così abbigliata in pratici abiti comuni . Anzi, alcune Carmen più tradizionali, spesso raggiungono la volgarità per eccesso di ostentazione della passionalità che il regista vuole trasmettere.
Mi chiedo dove portino queste operazioni.
Dopo che abbiamo attualizzato tute le opere? Allora?
Io sarei stato più bravo dei due registi senza alcun dubbio, però mi chiedo:
come mai questa scenografia al risparmio? hanno speso sempre un botto anche quest’anno… allora? Scelta? Perchè? Boh… ma soprattutto quando vedremo i bilanci 2012? Come sempre dopo 10 anni??????
Colgo l’occasione nel ribattere a Travaglio, travagliato, di farvi i miei saluti chè mi concedo una vacanzina, stacco tutto, che ci vuole ogni tanto per igiene mentale.
Dove portino tutte queste operazioni di attualizazione delle Opere, se lo chiese già 30 anni fa il pubblico maceratese che assistette orripilato al finale della Prima della Bohème di Ken Russel. Sta bene che Russell era Russell, ma la reazione immediata del pubblico non fu certo incoraggiante nel proseguire lungo un filone innovativo per qualsiasi artista. Evitate di rispondermi che Russell era veramente innovativo nella sua genialità, lo sappiamo. Se questa allora è la tua domanda Travaglio, la risposta è nei fatti. La Bohème spregiudicata di Russell, che tutti in prima battuta definirono un’oscenità , una dissacrazione, portò con successo il nome dell’Arena di Macerata in tutto il mondo. Oggi, senza le stesse pretese, si è voluto dare spazio lo stesso a regie non convenzionali per ridare quella vitalità necessaria a che l’Arte rinnovi sè stessa .
Re-citare, non vuol dire replicare, ma apre tutto un mondo di interpretazioni. La cosa importante, è che ogni rimaneggiamento su un’opera originale, sia fatto entro il rispetto dettato dalle regole artistiche e con una finalità comunicativa di nuovi e autentici contenuti . Parla solo se hai qualcosa da dire e dillo bene, in sostanza , che allora anche non avrai fatto un capolavoro, tu artista avrai dato il tuo contributo alla crescita generale artistico- culturale.
Se dismettessimo tutti dal nostro armadio il gessato in questi ambiti e se ci ponessimo di fronte anche a questo genere musicale con atteggiamento ludico, come un bambino che apprende attraverso il piacere del gioco, saremmo tutti meno prevenuti, più aperti e in grado di cogliere e distinguere il nuovo che arriva.
Brava Tamara, bellissima analisi. Resto in attesa di vedere una regia di Travaglio allo Sferisterio. Una Carmen senza folklore non è una brutta Carmen… anzi!
LA PIOGGIA UCCIDE CARMEN
“Una Carmen senza folklore non è una brutta Carmen… anzi!”
Anzi, è una Carmen morta prima di nascere!!!!
IMPROPONIBILE!!!!
Brava Tamara — ho solo una nota di servizio per te —
Dopo aver letto alcuni commenti – sei sicura di essere
tu a necessitare della vacanza come tu terapeuticamente la intendi ???
Claudio, no 🙂 però è meglio che seguitino a parlare tutti quelli che ancora oggi ne scrivono male, dicendo esattamente quello che ne pensavano prima che ci fossero le rappresentazioni che non hanno visto .
Un saluto
prima di commentare carmen la vorrei rivedere con calma e meno freddo,ricordo a tutti che anche sul palco è freddo ci rivediamo alla prossima
La troppa “originalità” è nemica della “comunicazione”. C’è il pericolo che ciò che si comunica non venga “compreso” in una comunicazione a due sensi, come deve essere quella artistica. A questo punto, ciò che si presenta e si registra nella mente non suscita alcuna comunicazione di rimando. Oppure, suscita una risposta in negativo. Con ciò, la comunicazione tra la “fonte” della comunicazione e il fruitore si interrompe.
Dato che si citano Ken Russell e Swoboda, vorrei dire che il primo non è “originale”, ma è uno spigliato inventore di ambienti “storici” che nulla toglievano alla tensione sentimentale di quella “Boheme”. Il secondo, con la “Traviata” dagli “specchi che riflettono la scena sottostante”, potrebbe aver voluto rappresentare il “piano astrale”, come lo conosce un esoterista. Esso altro non è che il “piano mentale degli impulsi e delle emozioni”, che precedono di riflesso “gli impulsi e le emozioni” sul piano fisico. Quindi, Swoboda non esprime alcuna “originalità”, ma una realtà “invisibile” all’occhio fisico, ma non a quello “chiaroveggente”.
Infortuni metereologici a parte, a questa “Carmen” è mancato soprattutto il colore della Spagna.
Il “colore” è una vibrazione musicale. Quando osservi un Kandinskij “astratto” vedi immagini colorate che vibrano. Se fossero in grigio, bianco e nero vibrerebbero ugualmente – mi chiedo?
Quando ascolti un disco della “Carmen”, tu “crei” nella tua mente lo svolgersi della scena, che “vedi” con i colori rosso violento, bianco accecante e giallo dorato di Spagna. Nella “Carmen” maceratese i colori sono pastello, calibrati, salvo il nero delle divise: questi sono colori che portano al metafisico meditativo. Colori delicati, equilibrati, privi di sbavature cromatiche che trovi nei dipinti di Nino Ricci, i quali non danno emozioni “violente e sanguigne”, ma molto “spirituali”. Quindi, inadatti a commentare la sensualità, la passione, la collera, l’odio, la disperazione, che giungono alla loro conclusione con la “morte”.
Come è possibile, in una serata fredda, aggiungere un ambiente “gelido” montano al responso delle “carte” che annunciano la “morte”? Avevano un senso quei “quadri viventi” e quell’ubriacone che te lo ritrovi sempre tra i piedi con la bottiglia in mano, mentre tu tremi nel palco dal freddo, senza neanche un “cicchetto”?
Capisco il risparmio di fondi…, ma tutte quelle transenne che cambiavano di posizione non suggerivano per nulla le varie scene che si svolgono nella storia dell’opera.
Non entro in merito alla qualità degli artisti. C’eravamo, purtroppo, abituati ai Grossi Nomi all’epoca delle “vacche grasse” (io, addirittura, ai “Don José” dei giovani Corelli e Di Stefano dell’Arena di Verona di sessanta anni fa). Oggi, dobbiamo accontentarci. Ma, avremmo almeno voluto riscaldarci con i colori violenti dei costumi e delle luci, come ci “appaiono” con la musica di Bizet.
Non pigliatevela con me se ancora scrivo
prendetevela col maltempo che mi trattiene.
@ Rapanelli
Posta la questione nei suoi termini, di comunicazione bidirezionale, il feedback può essere misurabile solo da persona a persona, quindi meglio non generalizzare ,come se nessuno per come è stata allestita, avesse potuto comprendere la Carmen presentata quest’anno. Parli per lei quindi , perchè è a lei che saranno mancati alcuni elementi di rappresentazione. Per me, io ne ho avuti anche in abbondanza.
Rispetto alla sua critica sul colore, le faccio presente che negli anni ’70, ai teorici del colore , l’Arch. Clinio Castelli chiamato a definire un nuovo piano di colore per la città di Milano , argomentò che, sì, possiamo mettere mano alle facciate dei palazzi , ma il volto delle nostre città è dato dal colore delle carrozzerie delle auto che ci cricolano. , che sono parcheggiate in strada.
Un modo per dire, che qualsiasi intervento estetico , deve fare i conti con il proprio spirito dei tempi , lo Zeitgeist.
Allora, per quanto riguarda il colore, materico, ( un discorso a parte va fatto per le luci, straordinariamente taglienti) rispetto la scelta di regia che ha voluto decontestualizzare fino al limite possibile l’ambientazione della Carmen, lasciandone solo i tratti connotativi indispensabili alla narrazione, la scena perde il suo legame stretto con la Spagna, Siviglia e quant’altro di flokloristico, perchè parla anche di altro, di una universalità di situazione dei protagonisti ,diventa un luogo neutro che fa da sfondo al teatro umano dei sentimenti, delle passioni, degli ideali , dei drammi , delle alienazioni , che valgono per tutti gli uomini di tutti i tempi.
S ci si pone in quest’ottica di lettura, come fosse un sottolink alla pagina di navigazione principale, se ci si stacca cioè dalla sottana della Carmen , non diventa difficile comprendere perchè quei costumi dai toni sabbiati dei figuranti e del coro, scenograficamente molto spettacolari specie in cntrasto con la divisa nera delle guardie .
Per dirla con Victor Hugo, quei protagonisti dell’Opera, zingari, contrabbandieri, sigaraie, rappresentano tutta quella massa di inviisibili che abita le periferie anonime, in quella terra di nessuno, fra l’urbano e il rurale.
Tema che ci riguarda oggi molto da vicino: o no?
Riguardo infine l’ubriaco di cui non ha compreso la presenza costante sulla scena, ecco perchè dico che domenica è stato commesso un crimine nel mandare in scena l’Opera con la mannaia del temporale sulla testa .
Se non si è potuto assistere all’ultimo atto e alla scena finale, che dà senso non solo al suo ruolo in scena ma all’intera Opera, la sua figura resta un elemento incomprensibile che viene percepito come un disturbo, un noice ,per richiamare la questione ai termni sommari da cui è partito della trasmissione del messaggio tra fonte e ricevente.
ho ricordo di una Carmen nera che si muoveva sinuosa legando ad una corda un Don Josè annichilito. nonj c’erano ventagli, né nulla che facesse pensare alla Siviglia delle cartoline, non scene, solo quel muro illuminato da candele e la tragedia di bizet che muoveva per diventare la tragedia di ognuno di no. e’ sbagliato pensare che siano i soldi a fare o meno una buona realizzazione di un’opera come è sbagliato pensare che una trasposizione sia necessariamente pericolosa.l’opera ha bisogna di una idea registica profonda e purtroppo non si può improvvisare perchè la musica è una montagna da scalare, non da abbattere.
Ho visto la generale. La regia è illogica sotto un profilo cronologico: sembra essere ambientata (almeno stando ai costumi e soprattutto alle schiere di poliziotti in divisa da Guardia Civil ed anche al loro modo “violento” di muoversi, frutto penso di precise istruzioni) all’epoca di Francisco Franco, e poi ti sbucano fuori cellulari a tutto spiano, non solo nella posa “yuppie” in cui lo usa Carmen (cosa inguardabile, onestamente), ma anche nella posa “coatto”, ripetuta più volte, in cui li impugnano i coristi che scattano continuamente foto a destra e sinistra (altra cosa inguardabile anche perchè fatta con eccessivo compiacimento, quanto meno da alcuni coristi particolarmente euforici).
In alcuni casi i costumi (specie quelli delle sigaraie) rimandano addirittura ad un contesto anni ’30.
Pose stereotipe e di maniera ce ne sono ovunque, compreso l’uso delle bottiglie al posto delle nacchere: si cambia qualcosa ma alla fine non cambia nulla.
Non parliamo delle mani protese ritmicamente verso Escamillo durante il coro “Toreador”; un grande regista di nome Enrico Job, che firmò un Trovatore a Macerata, amava ripetere a cantanti e comparse che quando un gesto viene fatto a tempo di musica è ridicolo. Specialmente quando ciò è voluto, mi permetto di aggiungere io.
Stessa cosa per vari “balletti” dei poliziotti sparsi qua e là per tutta l’opera.
La quadriglia del quarto atto è quasi completamente immobile, non succede praticamente nulla.
L’ubriacone che entra continuamente è troppo sforzato.
Insomma, nulla di che, forse si poteva riprendere la Carmen di Deflo (che pure a scene era minima).
Quanto alla musica, non si sentiva praticamente quasi nulla dell’orchestra salvo i forte e i fortissimo; palcoscenico e buca quasi sempre sfasati. Le voci si sentivano pochissimo, incertezze continue (e ci credo, con le poche prove che fanno …..); Aronica ha sicuramente una gran voce, ma è anche una bella voce?
Boh, sono molto perplesso …………….
Da questa recensione sembrerebbe di non doversi preoccupare tanto della critica per la regia, ma della stroncatura dell’Opera causata dalla pioggia. Cantare, suonare e dirigere in quelle condizioni…..
Giornaledellamusica.it 25 luglio 2012 La Carmen in pantaloni
Allo Sferisterio di Macerata
” Una Carmen essenziale, violentemente realistica e drammaticamente calata nella contemporaneità è quella presentata dalla regista Serena Sinigaglia a Macerata Opera Festival. Nessun riferimento al folklore spagnolo e a zingari stereotipati: in scena sono piuttosto la passione, la sete di libertà e la morte, qui presentati con linguaggi gestuali e scenici scarni, crudi, osceni nel loro essere diretti e veri.
Una Carmen di una carnalità quasi primitiva, in pantaloni e gilet, vistosamente tatuata, volgare, sciatta, una cupa prostituta di basso rango che si siede, invero in modo molto poco femminile, a gambe larghe; un luogo “non luogo”, solo fatto di terra e mucchi di terra, sullo sfondo uno squarcio del muro, unici arredi cassette di plastica, bottiglie vuote, scatoloni, sacchetti per trasportare le proprie povere cose. Non cambi di costume, né di scena, solo linee di transenne che vengono spostate per evocare i luoghi. La Sinigaglia si è ispirata alla chabola di Siviglia, dove vive oggi in Europa la più grande comunità gitana. Nelle ambientazioni di questa periferia degradata la liaison de scène è per lo più un danzatore (?) nei panni di un giovane alcolizzato, bottiglia in mano, che si trascina sul palcoscenico, semi incosciente. E del resto l’alcol la fa da padrone, con Escamillo che entra in scena anche lui armato di bottiglia, e Carmen che trasforma in strumenti percussivi due bottiglie di birra. Nel complesso, un’interpretazione non molto esaltante, vuoi per il maltempo, che ha fatto interrompere lo spettacolo per dieci minuti a metà del secondo atto e poi definitivamente all’inizio del quarto; vuoi per l’assenza di eccellenze canore (Carmen, Micaela e don Josè dignitosi, Escamillo con poca voce) vuoi per l’orchestra non sempre ben allineata con il canto.”
Lucia Fava
ihttp://www.giornaledellamusica.it/rol/?id=3990
Meno male l’ho vista alle prove generali! 😉