di Maria Stefania Gelsomini
(foto di scena di Alfredo Tabocchini)
Dopo la prima di Traviata, si cambia rapidamente pagina allo Sferisterio. Preceduta da qualche polemica e da critiche più o meno calzanti sulla scelta di un’ambientazione sessantottina, ha debuttato ieri sera La Bohème in technicolor di Leo Muscato. E se l’obiettivo doveva essere quello di divertire il pubblico, è stato centrato in pieno. In effetti il pubblico, che ha sempre ragione, ha dimostrato di apprezzare la messa in scena allegra, colorata e molto ruffiana di questa Bohème in cui il gioco, la goliardia, la spensieratezza strizzano l’occhio allo spettatore e lo coinvolgono inevitabilmente nella sarabanda rutilante cui danno vita senza risparmiarsi cantanti, coro, mimi e figuranti.
Il rischio è che alla fine la storia d’amore di Mimì e Rodolfo venga lasciata quasi in secondo piano, che la comicità prevalga sulla drammaticità della vicenda e persino a volte sulla musica, tanto si è “distratti” da tutto ciò che avviene sul palco. Il regista ha trasformato il primo atto in un grande musical pop-lirico carico di umorismo, ricco di gag e buffi siparietti, esperimento riuscito anche grazie alla bravura attoriale di tutti i protagonisti, giovani, disponibili e dotati del necessario physique du rôle (ci fossero state nel cast sessantenni signore della lirica o interpreti di stazza pavarottiana sarebbe stato sinceramente arduo e poco credibile). Perciò è probabile che questa trasposizione temporale alla fine degli anni Sessanta non susciterà le polemiche annunciate, perché più che una rilettura in chiave socio-politica di un periodo storico turbolento appare un escamotage funzionale all’effetto scenografico. Una protesta generazionale all’acqua di rose, quelle di Mimì, che da ricamatrice di fiori diventa figlia dei fiori. Il Sessantotto è più una nota di colore e di costume che rimane sullo sfondo, in realtà non incide così in profondità sull’interpretazione e non stravolge il senso della storia, che potrebbe essere ambientata anche un decennio prima o un decennio dopo.
Non possono non far sorridere i coristi-cubisti che si esibiscono in uno scoordinato ballo di gruppo da Momus durante i festeggiamenti natalizi. O il padrone di casa Benoît vestito alla Antonello Venditti prima maniera, o i quattro boys di periferia con canotta e cappellino da babbo natale zebrati che accompagnano con movimenti caricaturali il canto di Musetta, o infine il vecchio Alcindoro fasciato in un completo rigato di velluto e caschetto platinato alla Andy Warhol. Per il resto è tutto “un andare e venire” (ma non quello tragico del finale…) di camerieri e cameriere iperattivi, di bambini festanti, di drink, luci e palloncini. Le contestazioni studentesche e le rivoluzioni giovanili, l’amore libero, i fermenti e le ribellioni sono rese con zeppe, pantaloni a zampa d’elefante e chiome ricciolute alla Cugini di Campagna.
Rodolfo, Marcello, Schaunard e Colline sono quattro amici buontemponi che abitano una soffitta coloratissima e disordinata facendosi scherzi e dispetti, nel primo ma anche nell’ultimo atto, anche nel momento del distacco dalle donne amate e nell’imminenza della tragedia, quando la soffitta è vuota ormai d’amore e di vita.
Nel secondo atto, le novità sono la barriera d’Enfer traformata nella Fonderie d’Enfer con la lunga cancellata presidiata da picchetti di scioperanti, e una macchina al posto del Cabaret dove trovano rifugio Rodolfo e Marcello. Il grigio ruba il posto alla tavolozza policroma, ma le implicazioni di lotta proprie di quegli anni restano in superficie: i cartelli di protesta contro l’inquinamento, le pietre tirate rimaste a terra, i manifestanti che si intravedono sullo sfondo e i poliziotti in tenuta antisommossa sono più che altro elementi di contorno che nulla aggiungono o tolgono al senso della vicenda. Di edizioni originali, azzardate, controverse è pieno il mondo della lirica, dunque non sconvolge di certo la presenza in scena della 2 cavalli furgonata azzurra, ma resta comunque un po’ innaturale vedere entrare e uscire i protagonisti dal retro della vettura. Come non meraviglia, in quell’epoca, che le contadine possano portare “burro e cacio, polli ed uova” in bicicletta, ma fa un po’ strano vederle arrivare su quattro bici nuove fiammanti del 2012 appena uscite dal negozio! Insomma, più che vere e proprie forzature, a volte stonano alcuni piccoli dettagli.
Ma il coup de théâtre che più allibisce è riservato all’ultima scena. Mimì irrompe nella soffitta di Rodolfo su un letto d’ospedale spinto da ben cinque tra medici, inservienti, infermiere e pure una suorina, vestiti con impeccabili camici immacolati, con tanto di comodino, sedia accanto al letto e attrezzatura per somministrare l’ossigeno al seguito. Una perfetta scena da E.R. Non è per il letto d’ospedale in sé, ma il libretto parla chiaro: Mimì, annunciata da Musetta, arriva trafelata in fin di vita dal suo amato (Voglio morir con lui! Forse m’aspetta…O mio Rodolfo! Mi vuoi qui con te?). Mimì è povera, ha freddo nella soffitta e chiede un manicotto, perciò la visione della sua degenza in una clinica assistita da personale specializzato anziché da amici spiantati in casa (Che ci avete in casa? Nulla!) stride molto con le parole. E così come entra in scena se ne va, trascinata via dopo la sua morte in fretta e furia sul letto a rotelle da medico e infermieri che non permettono a Rodolfo neanche di avvicinarsi a lei. Un finale con sorpresa che qualcuno tra il pubblico, come c’era da aspettarsi, proprio non ha gradito o almeno non ha capito, mentre c’è chi l’ha considerato un colpo di genio.
Molto buona nel complesso la prova dei cantanti, tutti all’altezza dei rispettivi ruoli, e molto più carichi e convincenti della generale di mercoledì scorso. Francesco Meli ha una voce bellissima e sebbene quello di Rodolfo non sia forse il ruolo perfetto per la sua vocalità, ieri sera il tenore in gran forma ha deliziato il pubblico con una prova generosa, cantando con gusto e in maniera impeccabile nell’intenzione e nell’interpretazione. Buona anche la prova di Carmen Giannattasio, che ha saputo rendere una Mimì sbarazzina e al contempo intensa, vocalmente impeccabile pur senza quel pathos esasperato che spesso caratterizza il personaggio. Completano la compagnia la pimpante Musetta di Serena Gamberoni, il Marcello del baritono Damiano Salerno, lo Schaunard di Andrea Porta, musicista con anfibi e pantaloni di pelle, e il filosofo Colline con vecchia zimarra a scacchi del basso marchigiano Andrea Concetti, classe 1965, che qui dimostra vent’anni di meno: applausi scroscianti per tutti, compresa l’orchestra diretta magistralmente dalla bacchetta di Paolo Arrivabeni.
Si replica con La Bohème il 27 luglio, il 5 e il 10 agosto, mentre stasera, pioggia permettendo, è la volta della Carmen firmata da Serena Sinigaglia.
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boh!!!
capisco che la Gelsomini indori la pillolla ma per me….Ken Russel era un’altra cosa !!!
Il riferimento principe è Almodovar è chiaro e nessuno lo dice, altro che Pop art, però rifare Almodovar oggi non è geniale, anzi è copiare il già visto.
Fate voi, per me siamo sul trash vero… non vi siete persi nulla, altro che rivoluzione copernicana!!!!!!!
Magari stasera la pioggia salva la Sinigaglia…
@Dante Edmondi Dove sarebbe il paragone con Ken Russel nella recensione? A me la Gelsomini pare molto equilibrata, dice le cose come stanno, scrive quello che dicevano quelli seduti vicino a me….
Che c’entra anche a me il lenzuolo bianco tirato sul volto di Mimì morta ha fatto sobbalzare sulla sedia…. per il resto però mi è sembrato che lo spazio dello Sferisterio, vera sfida, sia stato valorizzato e sfruttato al meglio…..
Prima cosa voglio complimentarmi con lei, Gelsomini. Aspettavo questa sua seconda recensione per avere conferma dell’impressione avuta ieri , e cioè oltre al fatto che è un piacere leggerla ,sa fare buon uso delle sue capacità di analisi e di critica. Dico questo, perchè avverto un tono in lei che non è il solito di chi fa il suo mestiere , spesso credendoci troppo nel suo ruolo , ma rispettoso verso gli artisti e calmierato nei confronti del pubblico con le sue reazioni sempre variegate.
Nel merito. Io mi sono fermata alle prove generali, quindi non mi esprimo sulle performance vocali degli interpreti, ma non dubito che Meli e la Giannattasio abbiano dato il loro meglio. Invece voglio dire qualcosa su quegli aspetti che mette in rilievo come punto di biforcazione critica nel pubblico , per cui come in questo caso, a una metà (quando va bene, una metà) una qualsiasi opera teatrale o cinematografica, o televisiva o musicale, piace per un elemento, un dettaglio o un’ intera reinterpreazione di un’opera e all’altra no ,per gli stessi motivi ma opposti.
Comincio dalla fine.
.
Lei riporta che la morte di Mimì in un letto d’ospedale, assistita da personale medico e paramedico, ha diviso il pubblico tra chi non ha gradito e chi ha definito ” un colpo di genio”. Io sono tra i secondi, ma più che colpo di genio, lo trovo filologicamente corretto all’ attualizzazione del dramma ambientato fine anni ’60.
La morte infatti , come la nascita, dalla seconda metà del secolo scorso, non può più dirsi un fatto individuale, ma sociale, da quando sono state entrambe cioè sempre più ospedalizzate , al punto da programmare una venuta al mondo in funzione dei turni di servizio del personale medico, o coi parti cesarei tanto di moda negli anni ’90 , oppure per il fine vita, con la pratica delll’eutanasia.
Chi nasce più nel letto dove è stato concepito? Chi muore più nel suo letto ? Si nasce e si muore in gran parte, in un letto d’ospedale. Intenzionalmente o no, non lo so, Muscato ha introdotto perciò questo argomento forte di riflessione e bene ha fatto quindi a velocizzare l’azione deile infermiere su Mimì appena spirata nel coprirla col lenzuolo, e poi quando la strappano letteralmente via nel letto di morte, dal suo Rodolfo e dagli amici presenti al suo capezzale. Chi non ha avuto un suo caro, un familiare, un amico deceduto in ospedale, che non abbia vissuto quel gesto pietoso e crudele dei sanitari ? Pensiamoci. Abbiamo delegato anche questo al nostro vivere sociale, così da non poter disporre dei nostri affetti nel momento più alto del dolore umano, quando piangere sopra e abbracciare il corpo ancora caldodi un genitore, un figlio, un parente, un amico, è un fatto naturale e necessario. E infatti in quella scena finale, due volte su due mi sono commossa per quella immedesimazione che evoca la scena atttraverso il ricordo personale. Emotivamente molto più potente ,coinvolgente, di qualsiasi altra morte , fuori dall’aderenza al Libretto, dell’eroina bohèmienne, per me.
Per quanto riguarda invece la sua sensazione che tutto quel trambusto nei primi due atti attorno alla coppia protagonista faccia perdere d’intensità la storia d’amore tra Rodolfo e Mimì, io penso invece che proprio questo la faccia esaltare. E’ quell’estraniamento degli innamorati da tutto e tutti , che è emerso in questo modo più che realistico. Ogni storia d’amore si consuma nel chiasso quotidiano, in mezzo alla gente, al traffico, ai rumori e allora anche sotto questo aspetto la regia di Muscato affina i sensi dello spettatore, li concentra sui protagonisti per poter farsi trasportare dentro la scena e fin dentro i due che manifestano l’uno all’altro il sentimento più universale in cui tutti ci riconosciamo per vissuto.
Un’ulitima parola sulla 2 CV.
Ci stava perfettamente sulla scena, in quanto per l’ immaginario collettivo francese, quella macchina ha rappresentato un mito in quegli anni, anche se l’originale aveva un solo faro sul lato anteriore sinistro . Peccato ,che tra tanti effetti luce non si sia mai ggiunto quello dei fanali della due cavalli azzurra. puntati verso l’ala del pubblico. Essendoci quell’elemento in scena, me lo aspettavo. Ma sono dettagli che nulla tolgono al resto, come per le bici, di cui nemmeno avevo fatto caso.
Insomma, tra il secondo atto coloratissimo e la progressiva perdita di figuranti e oggetti nelle ambientazioni successive rispetto all atmosfera festosa iniziale, come a preparare al dramma finale , regia e scenografia mi sono piaciute oltretutto, perchè se la dolcissima musica di Puccini riesce a penetrare in ogni cuore senza trovare opposizione e sciogliere anche le pietre, il testo del Libretto coi suoi termini desueti dal nostro dizionario di lingua italiana e anche dal vocabolario attuale dei sentimenti ( la piccina, la manina, la donna alare domestico) risultano per noi oggi troppo mielosi , troppo romantici, per cui una Mimì in cappottino lungo al ginocchio, gonna a quadri, una sciarpetta e una cuffietta vintage predispone a un altro ascolto di quelle parole per noi arcaiche In questo sta anche il senso della rilettura in chiave moderna di un’Opera Lirica, per avvicinarne la qualità dei contenuti e della forma espressiva, ai gusti e la sensibilità del pubblico che cambiano col passare delle epoche.
Marco Travaglio, ma come fa a giudicafre se non è neppure andato allo Sferisterio? Quale credibilità possono avere le sue critiche? Glie lo dico io… NESSUNA!
Faccio i miei complimenti a Tamara Moroni: malgrado non abbia mai nascosto la sua antipatia per questa amministrazione e (se non erro) per questa direzione artistica, sta fornendo commenti (mi sembra)competenti ed equilibrati… Grazie.
@Tamara Moroni
E’ sempre un piacere leggere i suoi interventi.
@Francesco74
Concordo pienamente con Lei.
ps: dato che siamo arrivati addirittura alla danza della pioggia, come ho scritto qualche tempo fa aggiungerei un consiglio per Micheli, ossia di spargere sale davanti all’ingresso dell’Arena nei prossimi fine settimana.
CHE BELLA PENNA LA GELSOMINI.
NON HO VISTO QUESTE PRIME OPERE, MA SOLO IERI SERA LA “CARMEN” ALLUVIONATA, SU CUI ESPRIMERO’ IL MIO PARARE DOMANI.
CREDO CHE SI DEBBA ESSERE LIETI CHE L’ARENA SFERISTERIO CONTINUI LA SUA VITA, PUR GRAMA, DOPO I FASTI MILIARDARI DEL PASSATO.
SI RICORDA KEN RUSSELL CON LA SUA “BOHEME” ORIGINALE. ALL’EPOCA, RICORDO ANCORA LE POLEMICHE TRA CHI LA PREFERIVA TRADIZIONALE ED, INVECE, CHI L’ACCETTAVA COME ALLESTIMENTO ARTISTICO NUOVO. PURE NEL CAMPO DELLE ARTI VISIVE CI SONO SEMPRE STATE CAGNARE.
I CANTANTI SONO STATI ALL’ALTEZZA DELLA PARTE? L’ORCHESTRA? IL DIRETTORE D’ORCHESTRA, LA REGIA? L’OPERA E’ STATA DIGNITOSA?
CON I TEMPI DI CARESTIA IN CUI SIAMO NON INVALIDIAMO LO SFORZO DEL COMUNE E DELLA PROVINCIA A MANTENERE IN VITA LA LIRICA ALLO SFERISTERIO. DIAMO LA NOSTRA OPINIONE ONESTAMENTE, SENZA VOLONTA’ DISTRUTTIVA.
COSA SAREBBE MACERATA SEMZA LA LIRICA ALLO SFERISTERIO?
Intendiamoci, ben vengano i giovani registi, scenografi, etc. Ben vengano le interpretazioni moderne delle opere, noi giovani generazioni d’artisti apprezziamo ed incoraggiamo sicuramente questo atteggiamento…MA NON BASTANO LE INTENZIONI!!! Se non fosse per i costumi e per le proteste operaie, nulla ricondurrebbe stilisticamente alla fine degli anni 60. I primi due quadri sono più trash/kitsch che anni 70, sicuramente da sbellicarsi dalle risate, il ché, detto di Bohème suona altrettanto buffo. Il cambio di registro fra i primi due quadri ed il terzo è troppo brusco, si passa dalla pagliacciata al dramma in modo troppo repentino, non credo che lo spettatore comprenda l’intento drammaturgico e, l’evoluzione emotiva fra Mimì e Rodolfo è completamente trascurata…non si può raccontare il loro dramma da metà storia in poi.
Per non parlare poi del tanto agognato finale in ospedale, la scena è tutto fuorchè una camera ospedaliera. La Fonderie rimane preponderante in scena ed erroneamente visibile. Forse valeva la pena far morire Mimì in fabbrica e chiamare un’ambulanza così anche il ritardo del medico ad arrivare avrebbe avuto un senso. C’è proprio una discrepanza fra quello che si dice e quello che si vede. Resta per fortuna un’interpretazione dei cantanti eccezionale…da pelle d’oca che annulla totalmente tante, troppe contraddizioni.