di Mario Monachesi
“Lu cappó adè un pollastru sanatu” (“castratu”), cioè un pollo (di 1 kg, 1 kg e mezzo) a cui vengono tolti i testicoli allo scopo di ottenere un prodotto di maggior peso e qualità. Una carne più consistente, più gustosa, delicata e ricca di proteine. Un cappone nostrale arriva a pesare anche 3 o 4 chili.
In campagna, tra settembre e ottobre, “de solitu la vergara, co’ l’ajutu de quarghe atra donna, o de che vardasciu, scerdi li pari (coppie) da facce” procedeva senza indugio a questa pratica. “Strittu lu pollastru tra le cosse, co’ ‘na lametta” (anche un piccolo coltello) incideva sotto l’ano, poi con due dita estraeva i genitali e li recideva. Tagliava anche “la cima” (cresta). Una volta eseguito il tutto, ricucito con ago e filo, “data sopre a li du’ taji ‘na stongata d’ojo, disinfettava co’ la cennera”.
“Gallu senza cresta è un cappó’ / omu senza varba un minchjó'”. Mi viene spontaneo pensare: “Quanti frichì'”, nel corso di quei oramai lontani e per tanti versi eroici tempi, “ha jutato le nonnese a tené’ li puji da ‘ccapponà”. In quelle case dove non c’era nessuno che si adattava a questa incombenza, “o ce java a fallo ‘na vicinata o passava lu crastì”, che contemporaneamente sanava anche “li purchitti” (maialini). In alcune zone, questa “operazione” avveniva di sabato perché in caso di qualche “intervento” non riuscito, “se quarghe puju…rmania sotto li feri (moriva), la domenica era il giorno piu adatto “pe’ cucinallu e magnallu”. “Li cappù’ era voni, lo vrodo ancora de più, po’ facia pure vè’, ma come sempre “succidia” in campagna, non era tutt’oro quello che luccicava. “A Natale, quann’era oramai ‘rriati (pronti per essere consumati), pe’ lu contadì’ ce rmania poco. ‘Nfatti du’ pari java a lu patró”, un paru a lu fattó’, quarghe atra coppia a chj j’avia fatto che piacere” (favore), quello che rimaneva (poco, come sempre) “era per issu” (“per casa”). Le vergare “lu jornu de Natà’ co’ lo brodo ce facia li quatrucci” (minestra fatta a casa, tagliata a quadratini), la carne, “lo ‘lesso de cappó’, cunnita co’ ojo e sale”. Ed era una festa infinita, che ripagava di tanto lavoro e di tanti sacrifici.
La castrazione di galli e “pollastri” è una pratica nota sin dai tempi dell’antica Grecia. Nell’antica Roma una legge proibiva di allevare galline dentro casa, allora i romani con la castrazione (creando capponi) aggirarono l’ostacolo. Col tempo il cappone cessò di essere un ripiego e data la succulenza e la prelibatezza della sua carne, divenne sempre più una forma di regalo prestigioso offerto dalle persone umili a quelle di rango per averne favori e protezione. Celebre nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni, l’episodio in cui Renzo Tramaglino si presenta dall’avvocato di grido Azzeccagarbugli con in dono quattro capponi vivi. Anche il Boccaccio, nella 7° giornata del suo Decamerone scrive: “Fece portare in una tovagliola bianca i due capponi…”. Nel 1513, Jean Francois Revel (scrittore, giornalista, filosofo) scrive che il prelibato piatto veniva servito a Roma in occasioni di rilievo. Più precisamente in piazza del Campidoglio, in onore di Giuliano de’ Medici, si banchettava con il cappone cucinato al mosto, bollito e ricoperto di salsa bianca, in brodo di cammello.
Secondo il pensiero medico antico, l’attività sessuale causava negli animali un notevole dispendio di energie, così la carne dei galletti castrati, impediti in queste azioni, diventava corroborante e afrodisiaca. Il Pisanelli, medico ippocratico del cinquecento, così scriveva: “Da al corpo umano piu nutrimento di tutti gli altri cibi, fa buon cervello e mantiene uguali tutti gli umori. Nutrisce molto, cresce il coito e si preferisce a tutte le altre carni perché genera perfetto sangue”. “Li cappù'” non vantano solo antiche origini, ma anche nobili. È nel Rinascimento che “essi”, culinariamente parlando, vivono il loro momento d’oro. Li troviamo infatti in bella mostra sulle tavole delle grandi corti. Bartolomeo Stefani cuoco dei Gonzaga nel suo trattato “L’arte di ben cucinare” parla di “capponi in bianco”, “capponi cotti nel latte”, “minestra di polli di cappone” e “salsa di fegatelli di cappone”. Scrive testualmente: “Le loro polpe sono buone per fare “piccate”, polpettine per i convalescenti, bragiolette condite con erbe odorifere. La cottura è con acqua e sale, anche allo spiedo e lardati riescono molto buoni”. Al cappone erano riconosciute anche proprietà medicinali, sempre lo Stefani scrive: “Mi è stato ricercato da molti, che dovessi usare diligenza di ritrovare nè’ ventricoli de’ galli, o capponi vecchi, una pietra chiamata “Allettorio”, che è di color di vetro bianco, o scuro, quale, dicono, sia di gran virtù. Nel ventricolo del cappone v’è dentro una pellicola nella parte più interna, quale seccata, e fatta in polvere, data a bere in brodo, o in vino, alle donne che patiscono mal di madre, loro gioia grandemente”.
“Li successi de li cappù’ seguita anche ogghj, cunsiderati unu de li più classici piatti de lu piriudu nataliziu, ma non sulo, tanto che un proverbiu recita “Scapuli e cappù’ non ci-ha stajó'”, il Ministero delle politiche alimentari e forestali ha inserito nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani anche il “Cappone rustico-nostrale delle Marche”. Un grande e meritato successo per il nostro territorio. Il detto “‘Ccapponà’ la pelle”, quella sensazione di freddo, paura o altra emozione che nell’essere umano fa emergere le estremità dei bulbi piliferi, nasce dalla somiglianza con la pelle dei capponi. Un tempo era molto in voga anche l’esclamazione “Te faccio cappó'”. Lo si diceva scherzosamente, ma neanche tanto, a chi procurava un fastidio o disturbo. Voleva significare “te crasto”, ti rendo innocuo.
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