di Mario Monachesi
L’oca arustu era la pietanza che seguiva “li moccolotti” nell’ultimo pasto della trebbiatura. L’oca era l’animale più numeroso e meno costoso che riempiva le aie dei contadini. Si nutriva di erba del prato e mangime (granoturco, grano, orzòla). “Li puji” venivano allevati in numero inferiore, quindi più pregiati e meno “usati” per queste occasioni, oltretutto dovevano essere divisi “co’ lu patró’ e lu fattó'”. In parole povere “li si sparagnava un po'”. “L’ocó” era il maschio e veniva lasciato per la riproduzione. “Oca” è il nome italiano di un numero considerevole di uccelli, appartenenti alla famiglia Anatidae. In occidente, le oche da cortile discendono da quella selvatica e se ne contano di tre tipi, quella bianca, la grigia e la nera. La più pregiata è senz’altro quella bianca tanto che un detto locale recita: “E chj si, lu fiju dell’oca vianga?” Abbastanza spessa e non liscia era la pelle. Per descrivere una forte emozione ancora si dice: “M’ha fatto vinì’ la pelle d’oca”. Nonostante i francesi vadano matti per il patè (fatto con il fegato), secondo una statistica sono i tedeschi a consumare più oca, circa 12 animali pro capite l’anno, cioè 80 kg.
Alla fine dell’800 il cuoco Pellegrino Artusi raccontando nel suo libro di ricette la cucina italiana, da dignità all’oca ed anche al suo “salame”. Anche per essa, come per il maiale, un tempo non si buttava via niente. Le piume, venivano messe da parte e poi vendute. “Passava lu pellà” che le raccoglieva assieme alle pelli dei conigli. Le piume venivano usate per fare cuscini, le famosissime penne e tanti altri impieghi. Passiamo al procedimento della cottura. Mentre gli uomini infuocavano il forno con le fascine, le donne, dopo averle precedentemente spiumate e “ffiarate”, tolte le interiora, lavate bene bene e lasciate ben coperte d’acqua per un paio di ore, iniziavano a condirle con olio, aglio, rosmarino e sale. Arrivato a temperatura il forno, venivano messe dentro fino a cottura croccante. All’ora stabilita, venivano servite, accompagnate da una ricca e fresca insalata, sulle tavolate dove già sedevano affamati “opere, pajaroli, machinisti, patrù e fattù”. Ma correvano altri tempi, altra fame e altra voglia di vivere. “Simo sicuri che era quanno se stava pegghjo? “.
Tanti poeti hanno cantato questo animale detto anche “cigno sgraziato”. Così lo ha descritto Guido Gozzano:
“…Penso è ripenso: “Che mai pensa l’oca
gracidante alla riva del canale?
Pare felice! Al vespero invernale
protende il collo, giubilando roca.
Salta starnazza si rituffa gioca:
né certo sogna d’essere mortale
né certo sogna il prossimo Natale
né l’armi corruscanti della cuoca…”.
Un’aforisma tra i tanti (per me il più bello e di spessore):
“L’oca è l’animale ritenuto simbolo della stupidità, a causa delle sciocchezze che gli uomini hanno scritto con le sue penne”. (Anonimo)
Non va dimenticato, dell’oca, il suo più grande studioso e ricercatore, Konrad Lorenz.
Oggi a ricordare “l’oca arustu”, non si contano più le sagre estive, a migliaia in ogni angolo anche del maceratese.
Grazie a quanti hanno letto e a quanti leggeranno. Buon lunedì d'agosto.
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