“Maceratesità” dell’Iran
o “iranietà” di Macerata?

Un viaggio in un paese che credevamo chiuso, oscuro e incompatibile col nostro. Ma alcuni confronti “de visu” fanno riflettere su loro e su noi

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liuti-giancarlodi Giancarlo Liuti

Al ritorno da dodici giorni trascorsi in Iran mi convinco una volta di più che compiere viaggi in paesi lontani significa conoscere, sia pure superficialmente, cioè da turisti, realtà sulle quali, prima di partire, avevamo idee pregiudiziali derivanti da anni di scuola, conformismi morali e politici, steccati religiosi, informazioni di parte. Idee non del tutto sbagliate, intendiamoci. Ma il confronto “de visu” con quelle realtà induce, almeno in parte, a cambiarle, spesso in meglio, e a maturare una più vera visione del mondo. Una visione che nel Duemila sta diventando una ineludibile esigenza esistenziale per ciascuno di noi. Perché il mondo sarà pure grande ma dobbiamo fare i conti col fatto che a mano a mano si fa sempre più piccolo – la globalizzazione dell’economia, lo sconfinato potere della finanza, i fenomeni migratori – e viverci senza capirlo vuol dire estraniarsi dal futuro che avanza e condannarsi a una sconfitta epocale.
Eravamo in sedici. Tutti maceratesi, della città o della provincia. L’Iran, dunque. Un grande paese collocato in un’area, quella medio-orientale, che negli ultimi decenni è stata ed è scossa da gravi tensioni di carattere nazionale e internazionale (l’Iran confina con l’Iraq, dove si tagliano teste, e con l’Afghanistan dei “talebani”). Ma oggi questo paese si va rivelando come il più compatto, il più stabile e il più sicuro, il che deriva anche dalla sua storia millenaria e dalle monumentali testimonianze di un passato che parla di filosofia, scienza, arte, letteratura e insomma di “civiltà” nel senso onnicomprensivo del termine. Non è questa la sede per entrare nel dettaglio – sarebbe troppo lungo – delle sue vicende, dalle remote genti indoeuropee che l’abitarono cinquemila anni fa ai vastissimi imperi persiani che nel corso di venti secoli, fino alle soglie del Novecento, subirono sì le invasioni di Alessandro Magno, dei Romani, dei Turchi, dei Mongoli e soprattutto degli Arabi, ma sempre, talvolta più forti, rinacquero. Tutto questo è lì. E basta aprire gli occhi: sacrari, regge, moschee, piazze sontuose, altissimi archi, torri del vento, palazzi da favola. Molto eroso – non cancellato – dal tempo, ma molto ancora ammirabile nella sua intatta bellezza, a documentare una coscienza di patria che non si è mai spenta neanche nelle vicissitudini più disastrose.
Il Novecento, dicevo. E, oggi, il Duemila. Le riforme filo-occidentali dei Pahalavi (gli scià Reza Khan e il figlio Reza), la rivoluzione del ’79 che estromise l’ultimo Pahalavi e la sua corte per gli eccessi di un esercizio troppo personale del potere, la durissima svolta teocratica e anti-occidentale dell’ayatollah Khomeyni che fece dell’Iran un’isola ermeticamente chiusa ad ogni fermento di progresso, l’attuale e cauta moderazione (non già nei sacri principi, che sono rimasti, ma nei fatti, con significative aperture al mondo esterno) dei governi che via via – non senza passi indietro, e si pensi al presidente “atomico” Ahmadinejad, sostituito l’anno scorso dal ragionevole Rohani – si sono succeduti al khomeynismo. Non più come impero e non più come Persia, giacché nel 1933 lo scià Reza Phalavi ne cambiò il nome in Iran per sottolineare quell’identità indoeuropea che lo differenzia dagli arabi. E il futuro? Ai posteri l’ardua sentenza. Ma la sensazione è che l’Iran sia in marcia verso la modernità del mondo. E che la modernità del mondo dipenda anche dall’Iran.

Il "maceratese Berzad intervista per noi l'imam di Esfahan

Il “maceratese” Berzad intervista per noi l’imam di Esfahan

E noi? Ci siamo andati da italiani e da maceratesi, seguendo l’organizzatore del viaggio e guida culturale Berzad Nikzad, cinquantasei anni, un iraniano che nella tempesta del ’79 lasciò avventurosamente il proprio paese e venne in Italia, dove apprese la nostra lingua all’università di Perugia, si iscrisse all’università di Camerino, si laureò in geologia, si trasferì a Macerata, si sposò con una maceratese, ne ebbe due figli e si dedicò al commercio di prodotti iraniani – tappeti, oggetti d’arte – e all’allestimento di soggiorni turistici nella sua terra d’origine. E fin da prima dell’inizio del tour l’amichevole rapporto fra noi maceratesi purosangue e questo maceratese di adozione ci è stato prezioso come stimolo di reciproca intesa. Poi, nel corso del viaggio, non sono mancate le occasioni di scoprire imprevedibili affinità fra noi e loro. E’ ben nota, ad esempio, la lunga lotta concorrenziale del nostro Enrico Mattei contro l’oligopolio petrolifero angloamericano delle “Sette Sorelle”. Ebbene, questa lotta ebbe inizio, nel 1953, proprio in Iran, quando il presidente dell’Eni e lo scià Pahalavi firmarono un contratto di sfruttamento del petrolio assai vantaggioso per quel paese. E fu una strategia che via via si estese ad altre nazioni medioorientali e dell’oriente europeo, una strategia contro la quale non cessarono le reazioni dei “poteri forti” occidentali, fino alla tragica morte di Mattei nell’attentato del 1962. E sentir parlare con gratitudine, in Iran, di questo marchigiano è stato per noi motivo di orgoglio.
Ma la scoperta più clamorosa – assolutamente inattesa per le idee con cui eravamo partiti – ha riguardato la gente iraniana, in particolare le donne. Gente entusiasta degli italiani, sorridente, gentile, pronta a darci una mano per qualsiasi cosa (una di noi s’è fatta male a una caviglia e subito gli inservienti di un vicino negozio si sono precipitati a procurarsi per lei un sacchetto di ghiaccio), fiera di mostrarci i suoi bambini, curiosa di noi più di quanto non lo fossimo noi di loro. Chiedevano soldi? Assolutamente no. A parte il fatto che scippi e borseggi, lì, sono rarissimi (in Italia, purtroppo, va peggio), in dodici giorni ci siamo immersi nelle folle di grandi città (Teheran, 14 milioni di abitanti, Esfahan, due milioni, Shiraz, un milione) ma abbiamo incontrato solo tre vecchi e timidi mendicanti. Ripeto: eravamo partiti con la convinzione di visitare un paese chiuso in se stesso e ne abbiamo trovato uno che in quanto a rapporti umani, verso gli stranieri ma non solo, è meno chiuso di Macerata, dove l’arrivo di qualcuno da fuori suscita un indifferente distacco e ci si conosce poco addirittura fra inquilini di uno stesso palazzo.
Iran chiuso rispetto al mondo? Per le leggi d’impronta islamica ancora lo è, in una certa misura. Per la gente non più. I costumi del popolo, insomma, sono più avanti delle leggi. E chi le applica ne tiene conto. Si pensi all’informazione planetaria che giunge dalle parabole satellitari: ce ne sono diverse, specie nei quartieri benestanti, e sarebbero vietate, e ogni tanto le autorità ne sequestrano una, ma altre rimangono. Si pensi alla percentuale relativamente alta di iraniani che frequentano Facebook facendosi “amici” in ogni continente. E si pensi alla circostanza che nelle case private i canali televisivi da antenna son tutti iraniani ma negli alberghi e nei ristoranti ve ne sono di inglesi e francesi.

Una famigliola all'aperto

Una famigliola all’aperto

E le donne? Indossare un velo nero che lasci scoperto solo l’ovale del viso e, sotto, una gonna nera fino ai piedi è obbligatorio in applicazione dei dettami del Corano e questa è per l’appunto una regola che intende esprimere, in pubblico, la riservatezza, la castigatezza, la modestia, forse la subalternità della donna. Ebbene, le iraniane, e non soltanto le giovanissime, girano sì vestite in questo modo, ma il viso di molte di loro è truccatissimo, labbra di uno scarlatto che pare una fiamma, morbida cipria sulle gote, occhi evidenziati da sottolineature nerissime, lunghe ciglia finte e alcune, come mi ha detto un ragazzo che parla l’inglese, ricorrono alla chirurgia estetica per ritoccarsi il naso. E sul velo che circonda il volto capita di notare, in rosso acceso, le scritte ultraoccidentali “Gucci” o “Prada”. La legge, certo. Che ormai ha ben poco, però, della riservatezza, della castigatezza, della modestia, della subalternità di un tempo. C’è invece il desiderio – come da noi – di esibire la propria bellezza. E ne ho viste tante, di donne, armeggiare, in strada, con gli “Smartphone” e gli “iPhone”. E c’era stato detto di non toccarle mai, le donne, per nessuna ragione. Ma sono state loro, talvolta, a porgerci la mano e a stringere la nostra. Altri passi, quindi, verso una modernità “liberale” che sa di Occidente. O, meglio, che sa di Mondo Nuovo.

La tomba del poeta Hafez a Shiraz

La tomba del poeta Hafez a Shiraz

Da ultimo, e per due motivi che in qualche modo ci riguardano, mi soffermo su Shiraz, la patria e la tomba del trecentesco poeta lirico e mistico Hafez, uno dei padri della poesia iraniana, nelle cui composizioni non mancarono, già allora, accenni all’ipocrisia di chi si autodefinisce giudice di rettitudine morale. Davanti alla sua tomba ci siamo capitati di venerdi, che per gli iraniani corrisponde alla nostra domenica. C’erano centinaia di persone, forse non esperte di letteratura ma che nel suo nome rendevano omaggio alle radici nobili del loro paese. Tornato a casa ho cercato i suoi versi e ho scelto questo: “Ero perso con lo sguardo verso il mare. / Ero perso con lo sguardo verso l’orizzonte. / Tutto e tutto appariva come uguale”. E il mio pensiero è corso al “Naufragar m’è dolce in questo mare” del nostro Leopardi. Ma da noi non ci sono centinaia di persone che la domenica vanno a ricordarlo davanti alla tomba di Napoli o alla casa natale di Recanati. Sto fantasticando, lo so. Anche questo, però, mi è parso un nostro, pur vago e controverso, riferimento all’Iran. Non sarà che nonostante il loro non alto tenore di vita gli iraniani sono contenti di essere iraniani e questa è una forza, mentre noi italiani – non solo oggi, a causa della crisi, ma da sempre – non siamo contenti di essere italiani, e questa è una debolezza? E un altro spunto, sempre a Shiraz, riguarda il vino. Parrà davvero strano (in obbedienza al Corano gli iraniani non bevono alcolici) ma il vitigno che produce il rosso Syrah giunse in Europa, misteriosamente, mille anni fa, proprio dalle campagne di Shiraz. E che c’entriamo noi marchigiani? C’entriamo, perché a Cupra Marittina c’è la cantina “Oasi degli Angeli” che coltiva quelle viti e ne trae quel vino.

L'ingresso di una moschea

L’ingresso di una moschea

Nel rappresentare la Persia di ieri e l’Iran di oggi ho scelto una chiave diversa da quella che secondo la consuetudine turistica dovrebbe illustrare soprattutto le magnificenze storiche e culturali di ogni paese. Una chiave, la mia, che può apparire dimentica di quei valori. Ho tuttavia privilegiato un aspetto che mi è sembrato non meno importante, ossia, con uno slancio opinabile ma sincero, la “maceratesità” dell’Iran e la “iranietà” di Macerata. Ne chiedo venia, ma talvolta le piccole cose dicono più delle grandi perché, sommessamente ma con immediata spontaneità, aiutano a farci rendere conto di ciò che, sia pure a fatica, s’intende per “uguaglianza” fra gli esseri umani.

(Foto di Americo e Marilena Sbriccoli)

 

 

Le "nostre" signore vestite come le loro

Le “nostre” signore vestite come le loro



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