di Mario Monachesi
Quando gli attuali acquedotti erano ancora di la da venire, sia in paese che in campagna, l’acqua per bere, lavare, cucinare e lavarsi, la si andava a prendere “co’ la vrocca” presso la fonte o il pozzo più vicino. Ci si andava, o ci si mandava, specialmente per i pasti, “‘na vardascia o un vardasciu” (“va a pijà l’acqua che maggnimo”), anche più volte al giorno. Così spesso che un proverbio del tempo ne descriveva la relativa usura: “La vrocca che va a la fonte, / o se magnimo”, smanneca o se roppe”.
Succedeva anche che “li vardasci jochènno” combinavano qualche piccolo disguido. Un’ulteriore proverbio allora recitava: “Ha fatto lu guadagnu de Chiara: / è ghjta per ll’acqua, s’ha perso la spara”. In casa “le vrocche co’ l’acqua troava postu sopre la pietra de lu sciacquató'”. Adiacenti alle fonti c’erano almeno un paio di “trocche”, una serviva alle donne per lavarvi i panni, l’altra era un abbeveratoio “pe’ le vestie de la stalla”. Almeno una volta al giorno dovevano “vinì’ ‘bberate”, fino a che la stagione reggeva, gli uomini ce le portavano una ad una, d’inverno l’acqua “je vinia caregghjata co’ li sicchji”. Se era un pozzo, invece, l’acqua doveva essere tirata su “co’ la ‘mbuzzatora”, cioė un secchio legato ad una corda, fatto scendere e salire tramite una carrucola.
Di solito, nei pressi del pozzo, appeso da qualche parte, c’era anche “lu rampì'”, una specie di uncino a tre punte, anch’esso legato ad una corda, pronto ad essere usato ogni qual volta il secchio vi fosse caduto accidentalmente dentro. I pozzi non avevano nomi, le fonti si e di solito prendevano un nome che riguardava qualche caratteristica del posto in cui si trovavano. O magari il nome del padrone sul cui fondo ricadeva. Le fonti erano luoghi di incontri, magari furtivi tra giovani e luoghi di “lavannare” allegre, ciarlone e canterine. Il poeta ed incisore Luigi Bartolini, così descrive, in un articolo datato 1955, la fonte più grande e più antica (1326) di Macerata: “Fonte Maggiore o fonte dei Cavalieri è sempre allegra di canti di lavandaie di tutte le età, di tutti i colori”. Festa ma anche sacrificio, l’oro bianco, come oggi definiamo purtroppo, per via di sprechi e furbi accaparramenti l’acqua, ancora non sgorgava comodamente dai rubinetti di casa, ma ogni giorno e con qualsiasi tempo, bisognava andarla a prendere con secchi a mano, o “brocche e brucchitti su la testa”, dove sorgenti sotterranee (“vene d’acqua”), alimentavano pozzi e vasche (“trocche”). Tra gli anni ’50 / ’60 è finalmente giunto, anche nelle più sperdute contrade di campagna, il tanto sognato acquedotto. Finalmente l’acqua arrivava beata in ogni casa.
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