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‘na orda ‘ttunno le case de li contadì

LA DOMENICA con Mario Monachesi

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Mario Monachesi

di Mario Monachesi

La casa agricola un tempo veniva definita “un mondo autosufficiente”. Nel 1934 un indagine Istat contava, nelle Marche, 112.520 case rurali. Sull’ara (aia), dove facevano da cornice “li pajà”, si affacciavano “le scale de fori, con in cima lu capuscale e lu sciacquató, poi la stalla, la cappanna, la cantina, lu stalló, lu furnu, lu pujà, lu cascì e più difilatu, l’ortu”.

LE SCALE DE FORI, LU CAPUSCALE E LU SCIACQUATÒ. Servivano per accedere al piano abitativo, in cima sotto “la logghja” (detta anche “capuscale”) trovava spesso posto “lu sciacquató”, luogo al coperto dove vi arrivava l’acqua e vi si potevano lavare e lasciare ad asciugare i piatti. Con la brodaglia raccolta in un recipiente sottostante la pietra, la vergara aggiungendo zucche, barbabietole e farina d’orzola o di mais, vi preparava “lu pastó (detto anche “troccata”) pe’ li porchi”.

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Rievocazione della trebbiatura a Macerata

L’ARA. Una parte di prato adiacente la capanna, ricoperta di mattoni o pianelle, dove si scaricava ogni raccolto. D’estate, ad esempio, dopo il grano vi si metteva ad essiccare al sole, sia il granoturco che “lo seme de li pori” (porri). Dopo ogni lavoro, la sera vi si ballava pure “lu sardarellu”, per la gioia di giovani ed anziani. Era un “pavimento” di fadiga e di festa.

LI PAJÀ. Se ne contavano almeno quattro, “de la pajà, de lo fié’, de la mesteca e lu pulà”. Nelle sere d’inverno c’era chi, con una rete ampia sostenuta da due lunghi bastoni, li passava tutti in cerca di catturare gli uccelli che per sconfiggere il freddo, nel frattempo, vi si erano rifugiati. Questo era un motivo per mangiare un po di carne a costo zero.

PAJALA STALLA. Era il posto dove trovavano alloggio buoi, mucche e vitelli. Veniva “goernata” (“sgrasciata”, cioè portata via la paglia sporca e rimessa quella nuova, operazione detta anche “rfatti li letti”) e “dato a magnà'”, (” cioè rimpjita la greppia co’ lo fié’), due volte al giorno, mattina e sera. Dato il tepore emanato dalle bestie, durante le giornate invernali, gli uomini vi intrecciavano cesti o vi aggiustavan o zappe, vanghe e qualsiasi altro attrezzo che poi serviva d’estate, le donne invece lavoravano con i ferri, facevano “carzitti”, “maje” e vi rammendavano panni e quant’altro, i ragazzi vi giocavano felici. Non c’era stalla che dietro la porta non avesse appeso il calendario di Sant’Antonio, protettore degli animali.

LA CAPPANNA. Di solito posta come attacco su di un fianco del fabbricato. Serviva quale riparo per carri, attrezzi, semi ed ogni altro bene utile al lavoro stagionale dei campi. Per dire quanto spazio c’era e quanta roba vi entrava, un detto ancora recita: “Trippa mia fatte cappanna”.

LA CANTINA. Era il locale più fresco e umido dell’abitazione, a volte posto anche sottoterra. Vi trovavano locazione le botti di vino. Quando un genitore ordinava ad un figlio: “vanne a caccià’ a bé'”, il figlio sapeva dove andare: “jô la cantina”. Quando a Gaetà’ de Pietrelló veniva chiesto: “Com’è vinuto ‘stanno lo vi'”?, Gaetà’ rispondeva: “Se bbocchi lla la cantina te ‘ntuntisce”.

LU STALLÓ. Locale adiacente la cantina, dove trovava posto “lu trocchju” (torchio) ed altri attrezzi inerenti “a fa’ lo vi'”. Se c’era posto vi si appoggiavano anche altre cose.

LU STALLITTU PE’ LI PORCHI. Sì componeva di due locali. Il primo semiaperto sul davanti, per far prendere aria e far mangiare il maiale. Dentro “lu troccu” veniva sistemata la razione del cibo. Oppure “Je vinia scapordatu jó un vardu (secchio) de mele. Tanto da far coniare il detto (per chi non dimostrava molta grazia nel porgere le cose: “Me pare che tiri le mele a li porchi”.

FORNOLU FURNU. Solitamente sistemato su di un altro lato della casa, oltre a cuocervi pane e crescia ogni settimana, era anche il vanto per gli arrosti da servire nelle occasioni importanti quali “feste recordate” e mietiture e trebbiature varie. Per riscaldarlo “co’ le fascine, lu vergà’ se arzava presto”, una volta caldo arrivavano le donne “co’ li sòli (sodi) de vincisgrassi o de papere e oche ccunnite”. Non restava che mangiare con appetito.

LU PUJÀ. Locale con una scaletta e “‘na carticina” (griglia di canne). Ogni sera i polli, dopo una giornata in giro a beccare per aia e prato, vi accedevano e imboccando la scaletta si andavano a sistemare sulla griglia. Alle prime luci dell’alba, il canto del gallo, obbligava “lu vergà’ o la vergara” ad aprire e far uscire tutti. Certamente “scaletta e carticina” vivevano una vita di…”guano pujino”, tanto da far girare il detto: “La vita è come la scaletta de lu pujà, corta e pjina de merda”.

 

CASCILU CASCÌ. Posto nel punto piu discreto della corte, era il gabinetto, rigorosamente a cielo aperto, di campagna. Fatto di canne o di “sammughi” (sambuchi), aveva a terra una buca e una tavola dove accovacciarsi per compiere i propri bisogni. Una volta finito, per pulirsi si strappavano le foglie dei cespugli vicini. Ci si rivestiva e, via più leggeri e più felici di prima. Ogni tanto con un secchio, si svuotava la buca e il servizio conti nuava per altri mesi.

L’ORTU. Posto sempre al di fuori del prato, in un terreno buono e facile da innaffiare, vi si coltivavano insalate (ascolana, tusarella, riccia, ecc), gobbi, cauli e vrocculi nella stagione invernale e, pomodori, fagioli, peperoni, zucche e zucchine, agli, cipolle ecc, in quella estiva. Tutta roba ad uso e consumo esclusivo della famiglia. “Se vó’ la robba vòna, jó l’ortu ce devi fadigà”. Anzi, ci si lavorava il doppio, perché metà verdura andava “a fattó’ e patró'”.

LU GRASCIÀ. Fossa non proprio in vista dove veniva ammassato e fatto maturare il letame della stalla. Con una cariola adatta, “la grascia”, veniva trasportata e sistemata bene sul mucchio già esistente. D’estate poi si procedeva con l’operazione “caccià’ lo stabbio”, cioè “sparegghjato” come concime per i campi. Negli anni, ad una persona non proprio pulita, si è incominciato a dire: “prufumi come lu grascià”.



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