di Jonata Sabbioni
L’architettura è, in primo luogo, una disciplina strumentale. Oggi, la tecnologia digitale consente di realizzare un’idea progettuale, e di vederla in concreto, prima di elaborare un pensiero compiuto su di essa. Siamo arrivati al punto di accettare un’immagine del progetto prima di aver compreso i limiti del progetto stesso, prima di aver capito come comportarci, come pensare. Prima di aver tentato di entrare nella realtà che dovrà contenere il progetto. Di fatto conosciamo gli esiti prima delle cause. Questo è, con ogni evidenza, anti-logico. Questo è inaccettabile, a meno che non si intenda considerare l’architettura come una disciplina illogica, meramente speculativa, astratta. Si tratterebbe, in tal caso, di un’arte concettuale, esclusivamente intellettuale di cui, tra l’altro, conosciamo già l’esito: l’assoluto impoverimento del linguaggio e la semplificazione orribile del significato. Perché si dovrebbe parlare, a quel punto, di un’arte visiva, in quanto comunicata – ed oggettivata – con immagini. Le nostre azioni rimarrebbero virtuali, prive di potenza, vane. Dobbiamo ammettere, quindi, che l’architettura ha dei limiti. Non tutto è possibile, non tutto è fattibile. È realizzabile, invece, tutto ciò che rientra nel campo dell’esperibile, del fisico. La virtualità è, per definizione, non verificabile e, per questo, non ripetibile. L’idea e l’atto sono cose differenti. E proprio dell’atto, nella sua genesi, occorre chiarire la natura: l’architettura è un’arte utile, eticamente responsabile, oppure è un’astrazione? La risposta non può che essere univoca: l’architettura nasce da domande reali e ad esse deve trovare risposta.
Gli scopi dell’architettura possono essere costruiti a tavolino ma devono comunque trovare soluzione mediante un metodo verificabile, replicabile, definito. L’architettura è un’attività con valore sociale, soprattutto, e ha sempre una motivazione etica, anche quando resta progetto. Il nostro fine è quello della definizione di un approccio ideale alla risoluzione dei programmi che si ponga come obiettivo il mutamento positivo. La nostra è una visione radicalmente umanistica e affatto teorica sul motivo del nostro operare: realizzare un cambiamento di parte della realtà esistente a favore di una realtà nuova, a favore dell’uomo. Dobbiamo certamente tornare sugli errori commessi (l’urbanistica “universale”, la programmazione utopica, le previsioni avulse dalle contingenze) e ripensare le soluzioni. Dobbiamo innanzitutto ripensare le proporzioni, i rapporti tra spazio costruito e spazio libero, tra pieni e vuoti, centri e distanze. Non possiamo più pensare ad architetture come immensi contenitori astratti, atroci nella loro banalizzazione, delle attività umane che dovrebbero contenere. Neghiamo, allora, le città estese, gli interstizi interminabili, le distanze assolute. Basta a città satellite, isolate, sovrastimate, intrappolate nella rete di infrastrutture ordinatrici.
È universalmente evidente come, per la qualità della vita di un individuo, la qualità dello spazio artificiale che egli frequenta assuma un valore essenziale. Proprio intervenendo sullo spazio artificiale noi abbiamo il compito morale di comprendere le esigenze dell’utente. Quali siano le sue necessità in concreto, nelle azioni quotidiane. Per tanto è essenziale, nei nostri progetti, considerare le relazioni spaziali, rivalutare la logica delle connessioni, analizzare i tempi e le usuali modalità di utilizzo degli ambienti. È importante ridare all’architettura il senso di un’attività logica, semplice, naturale. Un’arte sensibile, discreta, senza sprechi. Non spettacolare o luccicante. Una scienza, anche, corretta, gestibile, sostenibile. Alla luce di queste volontà, oggi dobbiamo anche sostenere la necessità di nuove teorie della pianificazione. Nei decenni pre-crisi si è costruito molto, troppo. La condizione delle periferie sub-urbane, anche all’interno dello sprawl (della dispersione urbana) che caratterizza – unica nella sua fenomenologia di incoerenti aggregati, lineari o diffusi – i territori costieri e vallivi delle nostre Marche, dimostra una tendenza drammatica: la mancanza di una visione nella gestione del territorio come risorsa.
Le cause di questa disgregazione sono da ricercare tra le pieghe delle sovrapposizioni storiche; ma soprattutto nelle scelte di volta in volta esperite per affrontare questa o quella situazione particolare e parziale, l’estemporanea e atomistica risposta ad interessi o furori regolatori. Né sono bastate le teorie urbanistiche, più o meno dogmatiche, né gli schemi o le griglie applicate dall’alto, a fornire l’indispensabile quadro d’azione. Il progetto, allora, deve ripartire dall’uomo e dalla sua scala. Dalle necessità che l’utente avverte. E non è vero che ciò significherebbe abbandonare il progetto su ampia scala: vogliamo dire, più semplicemente, che si dovrebbe progettare e agire partendo dal limitato e sommando, moltiplicando, arrivare all’esteso. Nella pianificazione urbanistica, ad esempio, sarebbe corretto intervenire su comparti limitati e sviluppare in essi strategie differenti, in base alle condizioni locali. Il progetto urbanistico può dettare linee generali, comuni, ma sarà l’architettura, su media e piccola scala, a fare lo spazio antropico, il contorno delle nostre attività, lo spazio artificiale che ogni giorno valutiamo, che influenza le nostre azioni. L’epoca dei progetti assoluti è finita. Gli urbanisti con gli aeroplani hanno fatto il loro tempo. Le loro proposte provocatorie, spesso rimaste fascinazioni inservibili, ci sono necessarie per capire dove stanno gli errori. Gli sbagli sono nelle pretese di organizzazione assolute, sproporzionate, dimensionalmente ingestibili. L’architettura e l’urbanistica devono ritornare alla semplicità del pensiero, alla chiarezza delle soluzioni, all’economicità delle realizzazioni. Questo è auspicabile non solo per ridurre l’impatto, in termini di risorse, di una progettazione irresponsabile, ma soprattutto per iniziare ad affrontare le richieste di nuova realtà. Dell’uomo per l’uomo.
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Complimenti all’arch. Sabbioni per il suo articolo.
Il mio commento si limita ad alcune sintetiche constatazioni:
1- l’Italia è l’unico paese europeo che ha in costituzione la tutela e la conservazione del paesaggio naturale e costruito, tanto da aver istituito anche un apposito dipartimento ministeriale per la tutela e il sostegno della qualità dell’architettura contemporanea. Allo stesso tempo, però, è anche l’unico paese europeo che ha smesso di fare architettura diffusa dal dopoguerra in poi. Non è certo un caso se il migliore architetto contemporaneo (Renzo Piano) sia divenuto il più famoso al mondo operando prevalentemente all’estero -vale ricordare che Piano, ancora relativamente giovane, risultò 40° al concorso per il progetto di un ospedale nel napoletano vinto dalla Fiat engineering, mentre poco dopo, a circa 35 anni, vinse il concorso per Beaubourg di Parigi-;
2- “l’architettura come disciplina sociale” deve scaturire da una domanda sociale diffusa. La società italiana ha smesso la domanda di architettura da oltre mezzo secolo perchè diseducata culturalmente ed eticamente da una cattiva prassi politico-amministrativa. Sostituendo, infatti, il secolare confronto delle idee progettuali con il confronto tra i portafogli e gruppi d’affari, oltre ai noti guasti nazionali si è anche prodotta una sostanziale perdita di capacità dell’architettura nel fornire risposte adeguate alle continue mutazioni della domanda sociale. In questo senso, non sembra un caso se gran parte del lavoro dei giovani architetti italiani viene sempre più relegato nel privato, sino a concentrarsi negli spazi dell’intimo della casa, arredi, bagni ecc..
Sign. Iommi, credo che i due fenomeni, quello della perdita d’identità della città e quello della limitata efficacia sociale dell’architettura, possano avere, in essenza, un’unica motivazione: la nostra incapacità di interpretare una strategia di sviluppo possibile. L’analisi della realtà complessa dovrebbe evolvere esattamente come la realtà stessa. L’architettura di qualità, così come lo spazio della città pubblica o i suoi servizi, possano tornare ad acquistare valore sociale (etico ed estetico) soltanto se si recupera una visione, una strategia di sviluppo. La responsabilità della politica è fondamentale all’interno di questa prospettiva. L’ascolto delle reali necessità di una società (e di una comunità, che dalla società si distingue per avere un territorio fisico definito) deve essere un dovere della politica e di chi ha gli strumenti per tradurre le necessità in soluzioni.
JS
Scusate, non sono del ramo, ma sull’argomento avrei una montagna di cose da dire. Faccio le prime osservazioni che mi vengono in mente:
– caro Architetto Iommi, il fatto che l’Italia abbia in Costituzione la tutela del paesaggio, non ci ha messo al riparo dallo schifo che negli ultimi decenni ha coperto il nostro territorio;
– sono d’accordo sul secondo punto – domanda sociale -, ma se il cittadino non è educato da nessuno – scuola, viaggi, interscambio con altre culture – come possiamo pretendere che dal basso scaturisca domanda di bella, e funzionale aggiungo io, architettura. Forse è necessaria anche una forte autocritica nei confronti della propria categoria. Gli architetti sono stati spesso correi con la politica nel privilegiare gli interessi degli uni o degli altri rispetto all’interesse collettivo.
– infine il giovane architetto mi perdonerà un sommesso ed umile consiglio per il futuro della sua carriera: vanno bene i Frank Lloyd Wright ed i Renzi Piani, ma il nostro paese ha bisogno di professionisti seri che, senza realizzare le opere che andranno sui libri, sappiano progettare luoghi belli e funzionali, senza piegare l’interesse particolare a quello generale. Nel nostro paese, nonostante l’impareggiabile patrimonio storico, ci sono un sacco di posti brutti ed i posti brutti producono persone brutte. Se uno va in una qualsiasi città del Nord Europa non trova ne vestigia storiche ne capolavori che saranno tramandati ai posteri, ma luoghi semplicemente belli e vivibili. Essi non nascono, necessariamente, da menti che vogliono mettere se stessi e la propria visione del mondo nelle opere che progettano, ma da gente preparata che vuole fare solamente bene il proprio lavoro.
Caro De Tocqueville,
non sarà del mestiere, ma certamente è del mestiere più nobile: quello al servizio dell’idealità e dunque dell’uomo. La bellezza dei luoghi storici non nasce dall’eclettismo degli architetti ed artisti del tempo, bensì dal servizio alla bellezza (in relazione all’uomo che doveva fruirne, e non ad un principio astratto o, quel che è peggio, autoreferenziale). Servire l’uomo ha affinato, nel tempo, la curiosità e l’ingegno al fine di servirlo meglio, con veri colpi di genio che, a secoli di distanza, anche noi riconosciamo di lampo e ci chiediamo come abbiano fatto. Tra cinquecento anni, nel Nord Europa, probabilmente apprezzeranno la bellezza della funzionalità in accordo con l’ambiente circostante. E speriamo che, dimenticati gli orrori di casa nostra, i nostri posteri possano dire dopodomani “per fortuna a un certo punto si misero una mano sulla coscienza e ripensarono sé stessi”.