di Davide Tartaglia
Pur nelle impercettibili ma decise sfumature che caratterizzano le terre marchigiane e il popolo che le abita, non è raro incappare nella sorpresa di alcuni tratti comuni che viaggiano da Pesaro fino all’ascolano, lambendo la gente di mare disseminata nei 180 km di costa della regione. Spesso può capitare di imbattersi nella cordialità di un gesto, in un’accoglienza senza calcoli e riserve fino ad un risentimento fiero e permaloso che ci convincono che c’è un filo comune, un sentire condiviso capace di unire la gente delle Marche oltre ogni previsione. Percorrendo le strade in mezzo alle colline della nostra regione e facendo lo sforzo di guardarsi intorno con un occhio distaccato, come se ci trovassimo per la prima volta in mezzo a questo moto ondoso di verde, di ocra, di marroni si possono facilmente rintracciare dei punti in cui il nostro sguardo si posa, si riposa.
Quasi delle oasi visive, dei punti nodali di una maglia lasca, dei totem in cui la terra inizia, finisce e poi ricomincia: la casa colonica. Ormai passano per lo più indifferenti ai nostri occhi talmente sono entrate nell’immaginario comune, si ergono sui crinali definendone il profilo senza alcuna soluzione di continuità con la terra che le accoglie. Se però ci si ferma a guardarle ci si accorge che, come ogni architettura, queste case, questi ruderi testimoni di un tempo che sembra ormai sepolto, raccontano di noi molto più di quanto possano fare le nostre parole, i discorsi. Quasi che ci si scopra ad osservare da fuori un tratto di sé, un qualcosa che ci appartiene. Dimenticarle sarebbe come dimenticare sé stessi.
Lo scrittore marchigiano Gilberto Severini usa un’immagine bellissima che coglie magistralmente il legame che unisce questi resti dell’edilizia rurale dell’Ottocento della nostra regione e il carattere del popolo che li abita: “guardando questo paesaggio garbato e diviso, di autosufficiente bellezza, si capisce che è per fisarmonica la musica che gli si adatta: un’allegria querula e sbrigativa, gracidante e terrena come l’aia di una casa rurale…”
Ecco, non c’è nulla capace di delineare l’animo di un marchigiano nei suoi tratti più nascosti più dell’ immagine dell’aia di una casa rurale immersa nel susseguirsi di colline che rapide precipitano fino al mare. Questo non fa che confermare che c’è un rapporto inscindibile tra l’uomo e l’architettura, un rapporto viscerale tra l’essere umano che abita e il luogo che è abitato, tra la concezione di sé e del mondo e ciò che sceglie di costruire.
Tornare oggi ad osservare l’edilizia rurale che ci circonda, cercando di capire le istanze da cui è nata, chiedendosi il perché di una ben precisa forma, dell’utilizzo di alcuni materiali, è dunque tutt’altro che un’operazione anacronistica o per addetti lavori, ma può essere piuttosto il viaggio appassionante del disvelamento di alcuni tratti comuni e di un’ultima appartenenza ad un luogo. Cosa dicono dunque a noi oggi queste case, questi templi del passato semidistrutti ed oggi quasi parzialmente spopolati? Cos’è e cosa significa la casa colonica?
La casa colonica rappresenta un bene culturale del paesaggio marchigiano, come i nuraghi lo sono di quello sardo e le cascine dell’area irrigua settentrionale padana. L’analisi della casa rurale va calata nella dimensione storica – della storia agricola e di quella degli insediamenti – essendo noto che il farsi dei poderi con le case coloniche è un prodotto economico-culturale relativo ai secoli che vanno dalla transizione tra alto e basso medioevo dell’Ottocento. Non che prima non esistessero residenze nelle campagne (dalle capanne del neolitico alle ville romane, alle casupole di qualche livellario di Ravenna e Fermo); solo che la torre, la palombara, la casa colonica, il borgo rurale, il casone del proprietario, così come risultano anche oggi, sono strettamente connessi al diffondersi nelle Marche della mezzadria classica con insediamento sul fondo, o a ridosso di esso in alcune fasi transitorie.
Le case poderali erano innanzitutto il risultato più incisivo e più immediatamente avvertibile di una sedimentazione di investimenti cittadini e di lavoro contadino protrattasi per cinque secoli e rappresentavano e documentavano fasi di sviluppo ed obiettivi, evoluzioni e persistenze, progressi ed arretratezze dell’agricoltura della regione fino al punto di essere, in assonanza con il paesaggio agrario di cui erano punti basilari di presidio e di controllo, il prodotto complessivo della organizzazione economica, della struttura sociale, delle condizioni culturali, del sistema politico. Si è venuto così chiarendo, con crescente precisione, che il tema della casa rurale deve essere altresì visto come una componente essenziale di quel rapporto variabile, sempre in via di trasformazione, che intercorre tra l’uomo e l’ambiente.
La casa rurale assume un rilievo tutto particolare nella mezzadria, perché essa ha una posizione non solo centrale ma interna, rispetto al processo produttivo che richiede appunto, oltre alla disponibilità di un podere accorpato a coltura promiscua, un edificio in grado di svolgere una serie articolata di funzioni. Esso deve essere infatti stabile residenza della famiglia contadina e disporre perciò di stanze di abitazione, oltre che di un pozzo d’acqua potabile e di un forno per cuocere il pane, ma è anche luogo di allevamento e di ricovero per bovini, suini, ovini e pollame; e inoltre deve fornire magazzini, ripostigli e capanni per gli attrezzi, le sementi e le scorte, nonché spazi idonei alla prima lavorazione e alla trasformazione di una parte almeno dei prodotti, quali, anzitutto, la tinaia e la cantina per la vinificazione delle uve e l’aia per essiccare e trebbiare i cereali, cui si aggiungono a seconda dei casi una stanza per il telaio, i locali per l’allevamento del filugello o per la conservazione delle olive.
Una qualsiasi casa rurale marchigiana potrà pur essere semplice nelle forme costruttive e povera per materiali e strutture ma certamente sarà complessa e articolata dal punto di vista funzionale. Essa non è solo residenza per il colono, ma anche e soprattutto laboratorio per le molteplici attività connesse alla vita della campagna; luogo dunque di produzione, lavorazione ed immagazzinamento dei prodotti, nonché deposito degli attrezzi da lavoro e, perché no, anche officina di riparazione degli stessi.
A seconda dei cicli produttivi la casa rurale si è via via arricchita di altre costruzioni specifiche e di servizio che solitamente si organizzano intorno alla casa fino ad invadere tutto lo spazio immediatamente circostante. Il più delle volte si concentrano attorno all’aia, la quale rappresenta effettivamente dopo la cucina il grande spazio accentratore della dimora contadina, il fulcro della vita all’aperto; essa è il luogo della vendemmia, quello in cui si essiccano i prodotti, dove scorrazzano gli animali da cortile e dove si fanno sostare le macchine da lavoro e gli attrezzi, non ultimo essa è il luogo dell’incontro e della festa. La casa rurale è pertanto un microcosmo di vita produttiva, luogo articolato e complesso dove esigenze abitative ed attività produttive convivono e si compenetrano continuamente. Essa va dunque presa in esame nel suo complesso, non solo per gli aspetti ed i caratteri connessi all’abitare e al risiedere, ma come organismo polifunzionale più volte frutto di accrescimenti, innesti, giustapposizioni e trasformazioni che ne hanno fatto un’architettura straordinariamente ricca e varia, spontanea e razionale insieme.
Il carattere più evidente dell’architettura rurale è dunque questo sistema articolato di annessi che spuntavano secondo le esigenze lavorative e familiari di chi abitava la casa in cui ogni funzione aveva un suo spazio chiaro, delimitato ma non slegato dal tutto. I corpi nascevano secondo una gerarchia chiara e riconoscibile anche dall’esterno: la casa era sempre il nodo centrale da cui si sviluppavano tutti gli altri annessi. La forma, la geometria, il particolare costruttivo era sempre vigilato da una spinta ideale chiara che ordinava ogni tipo di scelta.
E’ chiaro che stiamo parlando di un’architettura povera, che badava al sodo, ma ciò che stupisce è come, dentro questa logica, un forte legame con il paesaggio circostante e l’amore per la terra di cui ogni giorno ci si doveva prendere cura hanno permesso delle costruzioni esteticamente efficaci, convincenti per il luogo in cui si andavano ad inserire.
“Con l’architettura rurale l’immenso dizionario della logica costruttiva dell’uomo, creatore di forme astratte e di fantasie plastiche spiegabili con evidenti legami col suolo, col clima, con l’economia, con la tecnica ci è aperto davanti agli occhi […]. L’analisi di questo grande serbatoio di energie edilizie che è sempre sussistito come un sottofondo astilistico, può riserbarci la gioia di scoprire motivi di onestà, di chiarezza, di logica, di salute edilizia là dove una volta si vedeva solo arcadia e folclore […]. Caratteristica dell’estetica della casa rurale è l’assenza di ogni preoccupazione dogmatica che non coincida con la necessità pratica o che non proceda inizialmente da una necessità funzionale o costruttiva. La sua espressione plastica procede dall’andamento del terreno, dall’orientamento del sole, dai materiali impiegati e dalle necessità interiori. Per di più essa è esente da ogni moda edilizia. Satura di una bellezza modesta ed anonima essa insegna a vincere il tempo e a superare le caduche variazioni decorative e stilistiche rinunciando a tutto ciò che è inutile e pleonastico” (Giuseppe Pagano).
In questo senso l’edilizia rurale è la testimonianza vivente di come l’arte, la bellezza nascono sempre laddove c’è un uomo che vive, che lavora, che soffre e non è mai il frutto di un’astrazione, di un allontanamento dal mondo ma piuttosto un addentrarsi ancora più profondo fin dentro le viscere della realtà.
L’architettura dei nostri giorni (a parte luminosi casi sempre presenti) ha invece perso questa forte caratterizzazione ed è diventata pian piano completamente slegata dalla vita che ospita, dal luogo in cui si va inserire. Lo sviluppo del centro commerciale è l’emblema di questa logica: un contenitore monstre all’interno del quale troviamo tutto ma il più delle volte perdiamo noi stessi. Andiamo al centro commerciale spesso senza sapere bene cosa cerchiamo, e il desiderio impazzisce: più che chiarirsi è indotto e poi frastornato dai milioni di stimoli che vengono forniti. Si è persa totalmente ogni riconoscibilità semplice, originaria tra la terra e il suo frutto, tra il lavoro e il luogo del lavoro nella massa informe di un tempo iper-veloce, mellifluo e indistinto, il tempo del ‘tutto e subito’ in cui il dolore, la sofferenza e il concetto di sacrificio sono praticamente scomparsi dall’orizzonte dell’uomo.
La finanza che sostituisce l’economia reale è proprio il frutto di questa concezione e le conseguenze di questo meccanismo sono ben visibili in ogni settore, in ogni ambito: da quello economico a quello culturale, fino – inevitabilmente – all’architettura.
Quest’ultima si trova sempre sbilanciata a volte in un funzionalismo estremo, conseguenza di un pensiero piccolo e miope, per cui si costruisce semplicemente per rispondere al bisogno immediato, escludendo dal proprio lavoro qualsiasi aspirazione estetica (come se l’uomo potesse vivere senza bellezza) e altre volte in un estetismo frivolo e autoreferenziale di qualche archistar straniero importato nel nostro belpaese. Ma queste due aberrazioni non sono nient’altro che due facce della stessa triste medaglia: l’architettura ha abbandonato l’uomo diventando la serva di un’idea di uomo. In passato questa posizione ha causato ben più grandi disastri, di cui abbiamo esempi eclatanti proprio nel secolo scorso.
E’ chiaro che questa disamina non deve essere letta come un banale e nostalgico rifugio nel passato di fronte allo scempio contemporaneo (sarebbe un’analisi tanto riduttiva quanto inutile), ma piuttosto uno spunto per cogliere l’insegnamento e la direzione ideale che l’osservazione della nostra storia, della nostra terra, della nostra cultura può darci ancora oggi. La casa colonica, per la nostra terra marchigiana, si pone di fatto come un’interprete luminosa della felice definizione che Heidegger dà dell’abitare: “abitare, esser posti nella pace, vuol dire: rimanere nella protezione entro ciò che ci è parente e che ha cura di ogni cosa nella sua essenza. Il tratto fondamentale dell’abitare è questo aver cura”.
Ecco, il nostro splendido territorio, per chi lo sa osservare, è testimone di quali frutti benefici per la società può dare il rimanere ancorati ad una concezione autentica dell’abitare ma soprattutto dell’uomo e solo se ci facciamo custodi attenti e rispettosi di questa memoria possiamo, ognuno nel posto in cui è chiamato ad operare, offrire un contributo decisivo a noi stessi e al mondo.
Per poter lasciare o votare un commento devi essere registrato.
Effettua l'accesso oppure registrati
Caro Davide,
grazie per quest’articolo che non puo’ che stimolare, attraverso la storia culturale di un elemento architettonico, una riflessione sul presente. La domanda che ti pongo e’ semplice ma necessita (perdonami) di una breve considerazione iniziale. Invertendo il motto di Guido Piovene riguardante le Marche come ‘unica Regione al plurale’ – tanto sentito oggigiorno nei circoli politici – hai cercato di creare un filo conduttore attraverso la casa colonica. Sebbene non sia molto convinto del passaggio diretto da architettura a identita’, mi trovi d’accordo nel sottolineare il carattere principalmente funzionale del casolare, con le sue stanze, la sua posizionalita’, le sue scorciatoie estetiche. Tramite imitazioni, prove e fallimenti, di certo si e’ storicamente arrivati ad un grado di standardizzazione che puo’ facilmente essere scambiato per identita’ architettonica. Cosa ne pensi dunque, non dei centri commerciali (mi e’ piaciuta molto la tua analisi su questo punto), ma dei restauri delle case coloniche stesse a fini turistici o agrituristici? Si ha qui lo stesso grado di standardizzazione votata a soddisfare bisogno necessari di un’umanita’ a contatto con l’ambiente che la circonda (da cui si potrebbe derivare una nuova identita’ marchigiana all’interno di investimenti che molto spesso provengono da oltremanica)? O forse ci si e’ mossi in direzione di una conscia mercificazione della casa coloniale, motivata dal bisogno di soddisfare gli immaginari globali del ‘countryside’? Lo stesso si potrebbe chiedere a proposito delle varie ‘eccellenze’ gastronomiche a cui il nostro orecchio (piu’ che il palato) si sta sempre piu’ abituando… dov’e’ quest’identita’ della cucina tradizionale marchigiana se non nel marchio che le stiamo attribuendo a fini commerciali?
Perdonami ti prego per il lungo commento, e se trovi due minuti per una risposta te ne sarei grato. Buon lavoro!
Michele
Caro Michele, sono io a dover ringraziare te, per l’attenzione nella lettura e per la pertinenza delle tue domande. Il tuo intervento mi convince del buon esito del mio tentativo, che vuole essere il contributo all’apertura di un dialogo circa l’architettura, e alla responsabilità che da sempre le è riconosciuta, più che una discussione sterile su un tema ultimamente sempre più dibattuto come quello della casa colonica. Chiarisco innanzitutto il tuo appunto sul rapporto architettura – identità. Credo infatti che la mia osservazione sia tutt’altro che in disaccordo con la citazione di Guido Piovene da te riportata, in quanto l’affermazione di un’identità, anche laddove essa si mostra in dei contorni forti, per me non è mai esclusiva o selettiva ma piuttosto inclusiva, piuttosto il punto di partenza di un incontro, la torre di guardia dalla quale io posso iniziare l’appassionante ricerca dell’altro, della pluralità. Senza un riconoscimento di ciò che sono, senza l’accettazione della mia identità (che la società di oggi cerca in ogni modo di frantumare) non sono neanche capace di avvertire la differenza e dunque subirne il fascino e la curiosità. Sempre caro mi fu quest’ermo colle / e questa siepe, che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. / Ma sedendo e mirando, interminati / spazi di là da quella. E’ la “cara” esperienza del colle (o della casa colonica?) la porta attraverso la quale irrompe l’altro. E’ dunque forse in questo ‘dramma’ che leggendo le case coloniche ho percepito nella nostra immensa ‘regione al plurale’ un territorio in comune con il quale confrontarci. Ecco, pur avvertendo come l’imitazione di un modello, il sedersi in uno standard abbia contribuito negli anni a creare il paesaggio che oggi ci troviamo attorno, credo tuttavia che le istanze originarie da cui nasce la casa colonica siano autentiche (la risposta ad un bisogno chiaro) ed estendibili a tutta la regione, ma per esempio non ad altre terre in cui avevano condizioni differenti. Infatti la condizione del mezzadro marchigiano era molto più civile rispetto a quella bracciante emiliano-lombardo e del piccolo affittuario meridionale, che quasi sempre vivono in città. Per questo le Marche non sono terra di cascine né di masserie.
Molto acuta la tua domanda sulla reinterpretazione contemporanea delle case coloniche dal punto di vista funzionale (dettato da un bisogno mutato nel tempo) e quindi anche formale. Pensare oggi ad un ritorno all’utilizzo della casa colonica come avveniva nell’Ottocento è tanto impensabile quanto inutile e ci si deve dunque domandare che senso abbiano oggi (come il mio articolo tenta di fare) questi ruderi testimoni di un tempo lento, scandito con il ritmo totalmente alterato che il mondo ci impone. Rispetto a questa domanda non mi sento di escludere nessuna soluzione a priori, neanche l’utilizzo a fini commerciali e turistici che tu accenni, se questo può essere un motore per una valorizzazione del territorio e per far ripartire l’economia locale. Ma questo rimarrà un’utopia se lo strumento con cui si cercherà di realizzarlo non partirà da una conoscenza (e quindi da un amore) per il territorio su cui si va ad operare. L’importazione cieca di un modello di business estero (magari rapido e dai facili risultati) potrà portare solamente ad uno sfruttamento-sfinimento dei nostri luoghi e ad un ulteriore impoverimento umano e culturale relegando le nostre colline a delle oasi abissali, dei rifugi mostruosi, delle terrificanti crociere bucoliche. Se invece le soluzioni partiranno da un riappropriarsi del valore culturale dell’edilizia rurale, maturando la coscienza delle eccellenze irripetibili del luogo in cui viviamo, tornando anche al contatto materiale con esso, allora anche il turismo e il commercio con l’estero (con l’altro) potrà essere la strada per far tornare alla vita zone dimenticate della nostra regione. In tal senso ci sono numerosi esempi della rinascita di questa coscienza che si possono iniziare a guardare.
Altrettante scuse per la lunga risposta e grazie per l’occasione di approfondimento.
Davide
Grazie Davide per la risposta!
mi trovi pienamente d’accordo nell’approccio al turismo che proponi. E purtroppo mi rattrista pensare che ogni giorno decine di visitatori vengano introdotti visivamente alle Marche tramite le lenti di fatine animate. Ma l’importante e’ dissipare le illusioni una volta arrivati, giusto?
Grazie ancora e buona giornata,
Michele
L’educazione dei toni di questo scambio di messaggi e in contro tendenza mondiale. Vi fa onore. Grazie.