Quando un ricovero
diventa un’odissea

Dottoresse che dormono, visite superficiali ma anche personale serio e di qualità. In una settimana all'ospedale di Macerata abbiamo visto cosa va e cosa non va

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L'ospedale di Macerata

di Marco Ricci

Dal pavimento dell’ingresso dell’Ospedale, dalle parti del CUP, parte una striscia blu che, parallela ad altre strisce colorate, si snoda lungo i corridoi. Se la segui per qualche centinaio di metri arrivi al vecchio ingresso dell’Ospedale, quello degli anni settanta. Sali ancora una rampa di scala e, al primo piano rialzato, ci sono due porte basse. E’ la Direzione Sanitaria dell’Ospedale di Macerata e il motivo per cui sono arrivato qui è denunciare quanto ho visto negli ultimi sei giorni, da quando una persona di mia conoscenza, all’una di notte di venerdì scorso, mi chiede di accompagnarla di corsa al Pronto Soccorso. Dietro la scrivania dell’ufficio della Direzione Sanitaria trovo una signorina bionda. E’ molto disponibile, cortese, mi invita tranquillamente ad esporle le mie lamentele, indicandomi anche le modalità da seguire nel caso volessimo richiedere un eventuale rimborso economico. Ma non sono qui per soldi. Sono qui sperando che quanto ho visto possa non capitare più né a noi né ai tanti altri cittadini che debbono ricoverarsi in Ospedale. Man mano che il mio racconto va avanti il viso della signorina non riesce a non nascondere l’imbarazzo, lo stupore, a volte lo sdegno. Al termine – precisandomi che già la mia rimostranza verbale avrà un seguito – mi invita caldamente a presentare una denuncia scritta. E mentre mi fornisce il modulo mi spiega: “Se in Direzione avessimo più denunce, noi qui potremmo fare molto di più.”

Questo mi piace, questa è una Sanità Pubblica che funziona e che ti dà  sicurezza, non quella che sento il dovere di raccontare, non per ripicca, non solo per rabbia, ma per l’augurio (illusione?) che certe cose se vengono alla luce poi non capitano più.

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Da qui in poi non farò nomi di reparti né nomi di medici. Non è  un giornale il luogo migliore per farlo e i nomi – già fatti verbalmente – verranno ovviamente riportati nella denuncia scritta alla Direzione Sanitaria, con tanto di orari, testimoni e via dicendo.

Come detto, venerdì notte siamo d’urgenza al Pronto Soccorso con dei dolori fortissimi. In questo reparto, quando il rapporto tra pazienti e medici non è di mille a uno, ti prendono subito in cura, rapidissimi e cortesi, cortesi anche con chi magari tu tratteresti piuttosto male. Come un ragazzo beccato dai Carabinieri con un elevato tasso alcolico che si rifiuta di fare le analisi del sangue, facendo un casino incredibile. Poi il ragazzo chiama il padre e il padre, invece di tirargli telefonicamente un calcio nel sedere, gli dice sostanzialmente di non fare niente finché non arriva il suo avvocato (e poi si dice che è la scuola che non educa). Tornando a noi, la persona che ho accompagnato sta male. I dolori sono sempre più forti. Vomita, trema, viene subito somministrato l’antidolorifico e fatti i primi esami. Ci viene dato anche un letto in attesa di capire qualcosa di più, in particolare nell’attesa di un esame specifico, un’ecografia da effettuare in un altro reparto di urgenza. Verso le quattro e mezzo veniamo dirottati verso questo reparto. Dall’eco però non si vede niente. Perché l’esame sia efficace c’è bisogno di bere liquidi. Per farla breve, alla fine un tecnico in modo assai scortese ci dice di tornare dopo due ore esatte”. Ma alla vescica, ahimé, non si comanda. Così, poco dopo le sei la vescica è già piena. Dunque l’esame si può fare e noi, stanchissimi, suoniamo ancora al reparto per l’eco. E qui viene il bello. Ci apre il solito tecnico scortese che ci dice a brutto muso: “E mica posso svegliare la dottoressa ogni quarto d’ora.” Ci chiude la porta in faccia e ci ritroviamo a guardare un vetro opaco senza sapere che fare. La persona che è con me stava già piangendo per il dolore e adesso piange anche per lo sconforto. E inizia a chiedermi insistentemente di portarla via.

malasanità

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Ma come, non può svegliare la dottoressa di un reparto d’urgenza? Venti secondi per riprendermi dallo stupore e mi incazzo. Moderatamente, senza alzare la voce, ma mi incazzo. Torniamo al Pronto Soccorso e domando subito se per far svegliare la bella addormentata debba chiamare i Carabinieri. Il reparto si mobilita. Qualche infermiere del Pronto Soccorso è più arrabbiato di me e mi dice senza mezzi termini di telefonare al 112. Altri sono imbarazzatissimi. Il medico – che tenta subito di contattare la collega del reparto di urgenza – è in evidente imbarazzo anche lui. Ma la dottoressa non si trova. Cominciano a cercarla un po’ tutti, anche il portiere dell’Ospedale che nel frattempo ha sostituito la collega del turno di notte. Chiama, chiama, ma lei non si trova.

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Passano i quarti d’ora e io sono sempre più nero. Quando vedo ripassare il tecnico che ci ha sbattuto la porta in faccia gli dico chiaro e tondo che la storia non sarebbe finita qui. A quel punto mugugna a testa bassa: “Io ho solo detto quello che mi è stato detto di dire.” Bravo, bravissimo. Come portiere di un alberghetto per coppiette clandestine sarebbe senza dubbio perfetto. Come lavoratore di un Ospedale pubblico che deve prendersi cura di pazienti francamente un po’ meno. Ma adesso almeno capisco anche perché ci era stato detto di ripassare alle sette. Così la bella addormentata avrebbe potuto dormire indisturbata qualche oretta di fila? Ma lei che fine ha fatto? Com’è che ancora non si trova? Arriverà alle 6.35, oltre mezz’ora dopo la porta in faccia e senza darci alcuna spiegazione, dopo che la vicenda aveva fatto il giro del Pronto Soccorso, con gli infermieri del turno di mattina che domandavano di continuo: “Ma è stata fatta questa ecografia?” E io, sarcastico, che allargavo le braccia e rispondevo: “Forse ancora dorme”. Beata lei.

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Dormiva di grosso da qualche parte? Forse era in reperibilità e (legittimamente) era tornata a casa lasciando (illegittimamente) l’indicazione di non disturbala? Oppure era in un altro reparto, e allora sarebbe fantascienza dotare i medici di un cerca-persone? O aveva soltanto commesso l’ingenuità della vita, una di quelle che una volta possono anche capitare ma che sarebbe bene non capitassero mai? Perché poi – a onor del vero – si dimostrerà una professionista valida, competente ed educata, indirizzando i colleghi verso il vero nodo del problema che ci ha condotti in Ospedale. Ma il punto è un altro. Tralasciando la porta chiusa in faccia che è qualcosa al limite dell’incommentabile, se si fosse presentata un’urgenza maggiore cosa sarebbe successo? Mettiamo una colonna vertebrale spezzata o un organo fortemente compromesso, le cose sarebbero andate diversamente? Si sarebbe dovuto attendere e attendere per avere l’esame da parte di un reparto d’urgenza in quel momento privo di altri pazienti? Mi auguro che non ci sia bisogno di aspettare il morto e la solita invettiva contro la malasanità per sistemare le cose.

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Il viaggio nell’Ospedale comunque continua. Grazie anche alla dottoressa dormigliona verso le otto arriviamo nel reparto giusto. Si capisce al volo che qui, dove l’urgenza è continua, i medici saranno più o meno la metà di quelli necessari. Le stanze sono piene e tra ricoveri, urgenze, visite in reparto, il personale infermieristico non si dà pace. Tranne per il momento operatorio sembra davvero che il reparto lo reggano loro. E nonostante il gran lavoro l’assistenza è perfetta. Sollecita, educata, in molti casi affettuosa nei confronti dei malati, dopo la porta in faccia è un vero e proprio sospiro di sollievo. A noi adesso ci aspetteranno un giorno e una notte di antidolorifici e di esami poi, la mattina successiva, l’operazione d’urgenza condotta da un chirurgo del reparto. Tutto bene, tutto perfetto – il chirurgo mi ha anche dedicato venticinque secondi per spiegarmi l’esito dell’intervento – tiro un sospiro di sollievo e posso cominciare a scherzare con le signore delle pulizie che tengono il reparto meglio che possono. E che se le chiami per sistemare qualcosa, un bagno sporco o una traversina da cambiare, si danno subito da fare e fanno. Wow, alla faccia delle cliniche private!

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Ma adesso per noi inizia il post-operatorio. Ed è nel post-operatorio che questo pezzo di Sanità si rivelerà un vero e proprio incubo, con la sensazione costante di essere abbandonati a noi stessi, i medici inesistenti, le visite superficiali (chiamarle visite è sicuramente eccessivo), e il personale infermieristico (come sempre) a correre e mettere toppe su tutto. Perché dopo due giorni dall’intervento si manifesta una tipica complicazione post-operatoria. E non si verifica solo per un caso, si verifica anche perché nessuno ha mai visitato il paziente, quindi nessuno si è mai accorto che il suo corpo è gonfio dei liquidi delle flebo. Così, dopo più di tre ore di dolori lancinanti e vomito, all’ennesima nostra insistenza, un medico autorizza un’infermiera ad intervenire. Il dolore rientra, ma per i medici è tutto finito lì. Anzi, secondo la vulgata popolare del reparto, è la persona ricoverata che è nervosa, non è l’evidenza di un problema E di fatti la mattina successiva, dopo due ulteriori non-visite, siamo da capo. I dolori ritornano, sempre fortissimi, prolungati per un altro paio d’ore perché non c’era un medico che dia l’autorizzazione ad intervenire e ci troviamo alle cinque di pomeriggio in capo al fico. Non sappiamo che fare. Nessuno ci ha spiegato niente e nessuno ci ha spiegato come superare la notte per evitare la complicazione. Insomma siamo in attesa che i dolori ritornino ma basta così. Un medico lo fermo per le scale. Spiego la situazione e, senza ovviamente visitare il paziente, la dottoressa mi da qualche indicazione di massima. Secondo lei è tutto normale, è una complicazione che ci sta, una complicazione che passa (sì, ma come?)

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La complicazione è così normale che una simile ce l’ha anche una paziente che è ricoverata nella nostra stessa stanza. Operata la settimana precedente, credo sia stata dimessa dopo poche ore da quando le hanno tolto il catetere. Così, dopo una dolorosissima permanenza a casa propria si ripresenta in reparto con un blocco alla vescica. Ci rimarrà almeno altri cinque giorni (a mio modesto parere assolutamente inutili) facendomi sorgere una curiosa domanda. Ma perché in questo reparto vengono operati pazienti che ad occhio e croce dovrebbero essere in urologia? Il reparto non è già abbastanza affollato per conto suo? Qui, secondo me, ci sono di mezzo le visite private dei medici, quelle a pagamento effettuate dai medici del reparto nei loro studi privati. Quando è necessario ricoverano i loro pazienti nella struttura pubblica per operarli, anche se il reparto dove lavorano non è esattamente quello giusto. Perfetto. E’ anche buono che un paziente possa scegliersi il chirurgo (senza la necessità di pagargli una parcella sarebbe ancora più giusto), ma poi il post-operatorio chi lo segue? E infatti lei ha problemi con il post-operatorio e nessuno ha chiamato a consulto un urologo che molto probabilmente sarebbe intervenuto meglio. Ma tornando a noi, noi rimaniamo in attesa di scamparci una notte di dolori sperando nel giorno seguente, giorno che sarà qualcosa di davvero memorabile.

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La mattinata inizia con delle urla disumane che arrivano dal corridoio. Penso lì  per lì di essermi risvegliato in psichiatria, poi l’infermiera che è di fianco a me alza gli occhi al cielo: “Il primario…” Primario di cui la persona che assisto ha fatto conoscenza il giorno prima durante la medicazione. Cerotto strappato via di colpo sui punti freschi senza nessuna cura da parte della sua assistente e lui, mentre rimuove il tubo che drena il sangue dal corpo verso un serbatoio esterno, che sbuffa infastidito: “Certo che sprecare un bisturi per una cosa così…” Per parte mia posso solo augurargli che il prossimo brufolo della schiena gli venga rimosso dal dermatologo con un paio di forbici da cucina. Possibilmente arrugginite. Comunque le cose sembrano andare un po’ meglio finché – ahime – non interviene un’altra dottoressa che ci da l’indicazione peggiore che si possa dare. E grazie anche alla dottoressa la complicazione si presenta di nuovo. Medici sempre diversi, indicazioni sempre diverse, a chi dare retta? Non sapendo più che fare, chiamo allora uno stimatissimo ex-primario che conosco. Dopo essermi fatto dare qualche suggerimento, riferendosi all’intervento della dottoressa mi dice: “Mi sembra impossibile che un collega possa aver dato un’indicazione così stupida.” E invece l’indicazione così stupida è stata data, ma per un semplice motivo anche più grave della stupidità. Qui, in questo reparto, di fatto nessuno instaura un vero rapporto con i pazienti e sopratutto nessuno visita. Nessuno dei tanti medici che sono passati ha mai sollevato il lenzuolo per verificare le condizioni del paziente, nessuno ha mai usato le dita per verificare i dolori e per accorgersi che non si trattava di presunto nervosismo ma di una complicazione in atto e nessuno si è mai accorto delle gambe gonfie di liquidi. Più che di medicina, trattandosi di fluidi, qui siamo alla rabdomanzia. E se non visiti, ovviamente sbagli.

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Nel frattempo, giusto per non essere gli unici sfigati della stanza,  dalla sera precedente una signora su con gli anni e con i chili aspetta la lettera di dimissione. La sera prima, imbarazzatissima, era arrivata un’infermiera. “Signora, non troviamo la sua cartella clinica e quindi non possiamo farle il foglio di dimissioni. Le spiace uscire domani mattina?” Che una cartella possa essere rimasta in un ambulatorio chiuso fino alla mattina successiva può anche capitare. Ma che non si riesca a dimettere lo stesso la paziente un po’ meno. In ogni caso mi immaginavo che alle otto del giorno dopo la paziente sarebbe stata dimessa con tante scuse da parte del primario. Figuriamoci. Dovrà aspettare fino all’una, per altro cedendo anche il letto ad una paziente che è appena entrata dopo una notte di dolori. Questa ragazza appena ricoverata chiede di un medico ed arriva un tizio che da qui in poi chiamerò Guido Terzilli, in onore della Sanità per come ce la raccontava Alberto Sordi. La ragazza ha dolori fortissimi e trema sul letto accartocciata su sé stessa quando arrivano le fitte. Il medico, dopo aver indicato gli esami da fare, se ne sta già andando quando povera paziente prova a fermarlo: “Dottore, e un antidolorifico?” “Ah”, lui sventola il braccio verso un’infermiera mentre esce, “datele un Aulin.” Ora, nessuno in quella stanza è un medico. Ma tutti rimaniamo a bocca aperta perché ci è ovviamente chiarissimo a tutti che un Aulin non sarebbe servito assolutamente a niente. E di fatto, circa un’ora dopo, lei è ancora che piange e trema sul letto. Allora si richiama l’infermiera, e allora l’infermiera va a cercare Terzilli, e solo alla fine Terzilli prescrive l’antidolorifico per vena. E a questo punto cominciamo a riderci sopra perché il tutto ci sembra sempre di più una barzelletta.

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Ridiamo per poco. La persona ricoverata, dopo l’ennesima notte insonne per tentare di non far ricomparire la complicazione, sta andando giù. Stanchezza, frustrazione, senso completo di abbandono da parte dei medici, di nuovo nessuna indicazione su come passare la notte e nessuna ulteriore visita accurata, nessuno che effettivamente ha preso in carico il problema, io non so più onestamente che fare. E’ davvero dura in certi momenti. Ti senti impotente, inascoltato, abbandonato, io adesso sono stanchissimo, a questo punto anche arrabbiato, e riesco a stento a trattenere  la persona ricoverata dal firmare subito per le dimissioni e andarsene a casa. A meno che, penso anche questa, non esco da questo reparto per rientrare al pronto soccorso un istante dopo. Allora ci facciamo forza e andiamo a parlare con Terzilli che prima di riceverci ci riserva nel corridoio un paio di pezzi da Alberto Sordi, vittime due extra-comunitari che sono a chiedere delucidazioni sulle condizioni dei loro congiunti. Al primo, che era lì silenzioso e preoccupato, con fare da piacione da borgata Terzilli ad alta voce gli squilla: “E che vuoi che ti dica? A volte si guarisce, a volte non si guarisce, la medicina è così. Che vuoi che possa dirti io?, e quello se ne va mogio mogio, come se ne vanno mogi mogi tutti quei cittadini che si sentono considerati di serie B. Al secondo extra-comunitario Terzilli riserva invece un umorismo ancora più triviale che fa sorridere soltanto lui: “E tu che vuoi? Perché io non ti capisco? Ma che lingua parli tu?”, detto sempre col fare che ha l’imbonitore davanti a un pubblico di nonne tele-dipendenti. Fortuna che la mia stanchezza impedisca al mio (normalissimo) senso civico di reagire. Nervoso come ero in quel momento, credo che avrei potuto reagire piuttosto male. Comunque alla fine riceve anche noi. Capisce che siamo incazzati, capisce che abbiamo individuato l’errore della dottoressa su cui lui ovviamente glissa per la tipica omertà tra colleghi (Dante la chiamava ignavia), ma qualcosa adesso cambia. Già, perché la normale complicazione post-operatoria diventa adesso una complicazione anomala, qualcosa che forse meriterà ulteriori approfondimenti, qualcosa che qui non si è mai verificata prima, o forse un problema con cui il paziente era arrivato in reparto. Cominciano a pararsi il culo, insomma. Ma se lui ha una laurea in medicina, noi abbiamo un dottorato in filosofia e una laurea in astrofisica. Non esattamente l’anello al naso per farci prendere per i fondelli così. Chiediamo allora una visita specialistica in un altro reparto (urologia), ma lui la rifiuta quasi sdegnato. E ci saluta senza lasciarci alcuna indicazione per la notte. Cazzi nostri, insomma, e buonanotte.

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La notte in ogni caso la passiamo. Stremati, cerchiamo di passeggiare fino alla mattina per evitare l’insorgere della complicazione e grosso modo ci riusciamo Poi, quando la persona crolla per la stanchezza e e la frustrazione, ci pensa una bravissima infermiera a tirarla su di morale verso le cinque di mattina, aggiungendo un saggio consiglio al suo intervento affettuoso: “Tu in ogni caso firma e vattene. E’ inutile che stai qui. Al limite rientri e vai in un altro reparto.” Già, è solo l’idea di uscire che ci da sollievo ma, con sorpresa, alle nove di mattina, sono i medici a dirci che saremo dimessi. Esattamente, proprio quei medici che ci avevano sventolato l’idea di una complicazione anomala da approfondire. E ovviamente ci dimettono senza una visita che sia una visita, senza che il problema sia stato minimamente affrontato e risolto, nel foglio di uscita non ci sono neppure segnati gli antibiotici (risparmio qui gli improperti del medico di base che vedrà il foglio di uscita più tardi). E ovviamente non c’è nessun accenno a come superare la complicazione. Ma su un punto il primario ci tiene. “Sicuro di non aver mai sofferto prima di questo problemi?”. Risposta: “Sicuro”. “Perché l’intervento non può aver danneggiato niente…” L’intervento no, il post-operatorio magari sì. Saputo del discorso del primario, comunque, la prima cosa che mi viene in mente è una vignetta. Una vignetta con un generale davanti a un soldato con una stampella. “Sergente, lei è proprio sicuro che prima della battaglia avesse tutte e due le gambe?” Battute a parte siamo fuori. Frega più niente perché siamo fuori, anche se scopriremo che ci hanno dimesso con un blocco intestinale e la solita complicazione che ricomparirà venti ore più tardi. Ma non era qualcosa di anomalo da approfondire? E io, uscendo, mi chiedo quale sia il limite che separa l’esercizio della professione medica dalla chiromanzia.

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Il medico di base arriva a casa la mattina dopo le dimissioni. La persona dimessa aveva la febbre e a lui sembrava incredibile che non foglio delle dimissioni non ci fosse segnato l’antipiotico. E’ proprio così invece. L’antipiotico non c’era. Ma a preoccuparlo è un altra cosa, il possibile insorgere della compliazione, quella che in reparto era stata presa per nervosismo. Se lui ha tirato improperi per l’assenza dell’antipiotico, non vi dico quanti improperi tiro io quando scopro che per sapere se la complicazione è in atto basta semplicemente appoggiare due dita sul corpo del paziente. Un gesto di mezzo secondo. Mezzo secondo netto, vi giuro. E la persona ricoverata che piangeva per ore perché stava malissimo prima che qualcuno intervenisse, mentre i medici ci lasciavano intendere che  era la paziente ad essere nervosa. Mezzo secondo. E nessun medico di quel reparto in quattro giorni ha mai speso mezzo secondo sul corpo del paziente. Il medico di base prova comunque a fare qualcosa, ma di più lui non può. E così, a ventiquattr’ore dalle dimissioni, siamo di nuovo in ospedale per i postumi dell’intervento. Ma questa volta almeno nel reparto giusto. Ricordate la risposta di Terzilli quando proponemmo una visita in urologia? “Urologia? Ma figuriamoci…” E il medico di base, infatti, ci spedisce proprio in urologia. Ma qui abbiamo almeno una bella sorpresa. Ovvero una Sanità pubblica che funziona bene.

***

Dopo essere stati grosso modo ignorati per tre giorni in un reparto in cui il rapporto tra medico e paziente è inesistente, fa davvero effetto avere davanti un medico vero. Un medico che si occupa subito del problema, che non solo non ha quella pessima abitudine di stampo medievale di chiudere fuori chi assiste un malato ma che, anzi, mi da addirittura ascolto quando mi rendo conto che la persona che accompagno ha tralasciato qualcosa nel suo racconto. Non solo mette a suo agio il paziente ma mette a mio agio anche me. Ci rimango quasi male, davvero. Mi è rimasto ancora addosso quella sensazione di dover sempre chiedere, di dover elemosinare, di doversi incazzare per avere un minimo di attenzione. Ai diritti non ci sono quasi più abituato e sentire di nuovo di averli fa quasi stacco. E neppure alla gentilezza dei medici sono più abituato, all’attenzione, tanto che quando torniamo a casa, per la prima volta dopo tanti giorni, ci sentiamo almeno sereni. Stanchi, preoccupati, ma sereni perché in urologia ci è stata data la sicurezza di qualcuno che si sta facendo carico di te. E quando stai male, non è certo poco. Anzi, in certi casi la tranquillità di un paziente può essere tutto.

***

Alla fine di tutto, qui a Macerata abbiamo una Sanità pubblica che non funziona?

No, questo non si può dire. Anzi. Alcune cose sono fatte bene, benissimo. Velocemente, con cortesia, ho avuto l’impressione che tanti reparti siano una scheggia. Il personale infermieristico e para-medico è ovunque quasi sempre efficientissimo, affettuoso e gentile con i pazienti. Si spaccano in quattro e tengono in piedi i reparti, rispondono al volo (se possono) ai bisogni di chi è ricoverato. Tutto è pulito, pulitissimo, non siamo ai tempi in cui bisogna portarsi la carta igienica al momento del ricovero. E anche molto prestazioni sono più che all’altezza. Come detto, il momento dell’emergenza (porta in faccia a parte) e dell’operatorio sono stati ottimi. Certo, c’è sempre il problema del personale. Ovunque vai ti accorgi che i medici sono pochi e l’Azienda Ospedaliera, per via del patto di stabilità, dovrà oltretutto rispettare in futuro anche il criterio del 10 a 7. Dieci medici che escono, sette che vengono messi dentro. Cosa che in un Ospedale come quello di Macerata, con il  personale già ridotto all’osso, può essere un criterio devastante. Ma onestamente ti accorgi anche di tante cose non vanno e che ci vorrebbe poco a sistemare. Di medici che sembrano facciano tutto fuorché i medici, di un rapporto con i pazienti e con i loro familiari spesso inesistente, a volte umiliante, di un senso di rabbia e frustrazione che può prenderti alla gola quando ti senti abbandonato con un problema addosso che non sai come risolvere. In questi giorni, mentre scrivevo, più che a noi pensavo a quelle persone, magari anziane, che non hanno un amico primario da chiamare o che non hanno la forza di alzare la voce e di passare in Direzione Sanitaria. Quante storie ci sono come la nostra? E pensi a chi in un momento di dolore e preoccupazione non ha la forza o la possibilità di reagire. E poi pensi a tutti quelli che lavorano e bene nella Sanità.  A quella giovanissima infermiera del reparto incriminato che, dopo aver saputo che sarei andato a protestare in Direzione Sanitaria, ha il coraggio di avvicinarsi a me e di dirmi sottovoce: “Hai ragione, hai ragione, hai ragione!”. E pensi alle infermiere che coccolano i pazienti quando stanno male, ai reparti che funzionano, ai medici che vivono il loro lavoro con passione, e fa male vedere che tutto questo venga rovinato da una parte del personale che farebbero meglio a pensare ai propri ambulatori privati lasciando in pace la Sanità pubblica e lasciando magari il loro posto a giovani medici sotto-occupati che hanno voglia di lavorare. Ma forse ha ragione anche la signorina della Direzione Sanitaria. Se noi cittadini cominciassimo a protestare nel modo giusto, cioè andando in Direzione Sanitaria piuttosto che continuare a imprecare ai tavolini dei bar, forse le cose potrebbero cambiare. Ma anche la Direzione dovrebbe attrezzarsi meglio, affiggendo in ogni reparto un bel cartellone in cui spiegare come, dove e quando presentare i disservizi in cui si è occorsi. E ci vorrebbe anche un bel questionario da dare ai pazienti al termine delle prestazioni per ottenere un sistema di controllo e di valutazione efficace e sicuro. Insomma, noi cittadini possiamo contribuire ma bisogna anche darci una mano con gli strumenti e le strutture.

In ogni caso, nonostante tutto, tante cose funzionano. L’assistenza è nel complesso buona, c’è pulizia, non siamo più nel 1970 e nei bagni la carta igienica c’è. Ma in certi casi, ancora oggi, al momento del ricovero più che la carta igienica sarebbe meglio portarsi dietro un medico.



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