di Maria Stefania Gelsomini
La principessa sottovuoto si scongela e conquista uno Sferisterio sold out per la prima della Turandot di Puccini. Ma l’Oriente dov’è? Il progetto creativo del duo della prosa Gianni Forte e Stefano Ricci ha una sua linea ben definita, è curato fin nei minimi dettagli e dà gran risalto alla simbologia, alla psicanalisi e ai movimenti scenici dei personaggi e delle masse. Colore e movimento non mancano. Può piacere o non piacere, potrà forse non soddisfare i palati dei melomani tradizionalisti affezionati a regie classiche, comunque sempre più rare sui palcoscenici lirici di tutto il mondo, però l’idea c’è e c’è tanto lavoro. La ricerca della diversità non è più una novità perciò non stupisce e non disturba, ma le atmosfere orientali, la Turandot andata in scena ieri sera, le ha perse per strada e questa orchestra (che sembra congelata come la principessa) da sola non basta a rievocarle e ad emozionare, pur sotto la guida di un direttore d’orchestra del calibro di Pier Giorgio Morandi. La Turandot immaginata da Ricci e Forte vive negli anni Sessanta del Novecento, in un mondo asettico apparentemente ordinato e perfetto, e si tiene ben isolata dai sentimenti. Turandot, che non vuol finire come la sua ava vittima di violenza ed è decisa a vendicarla, ha paura del contagio dell’amore e se ne tiene a distanza.
Vive felice e giocosa nel suo finto guscio di plastica colorato, circondata da sudditi telecomandati e altrettanto colorati che si muovono per compiacerla. Turandot è la principessa di ghiaccio che cavalca un enorme orso polare, un po’ Moira degli elefanti, regina del circo dell’apparenza. È un fiore carnivoro che vive in una serra dorata e divora crudele tutti gli innocenti che hanno l’ardire di chiederla in moglie. Turandot ha fatto uccidere decine di pretendenti incapaci di risolvere i suoi tre enigmi, e il loro sangue imbratta quella serra e tutto il suo corpo, fin quando il principe ignoto, il coraggioso Calaf, risolvendo gli enigmi scioglierà quel ghiaccio e laverà via quel sangue, facendola innamorare. Turandot, la soprano svedese Irène Theorin, con un gesto dà inizio alla musica come fosse una festa, ma le note dell’attacco parlano di una tragedia. Le scene sono occupate da quattro mega-teche dentro cui si muovono anche i personaggi, illuminate da luci verdi, bianche o rosse nei momenti clou del dramma. Una teca contiene nel primo atto l’orso polare, un’altra è una serra piena di piante. Queste teche vengono mosse sul palco da infaticabili mimi-automi in tuta blu, che hanno un ruolo preponderante occupando la scena per tutta la durata dell’opera. Spostano le teche, spingono tavoli e carrelli, controllano e aggiustano i gesti dei sudditi, forniscono loro gli oggetti da tenere in mano, attivano o disattivano l’energia vitale dei personaggi, sedandoli o rianimandoli all’occorrenza. Turandot nel primo atto non canta, eppure è sempre presente in scena. Appare con un abito fucsia sgargiante dal corpetto incrostato di brillanti e lunghi guanti bianchi di seta, dirige le azioni, è il motore di ogni scena. La folla di Pechino è una schiera compatta di uomini e donne vestiti con abiti anni Sessanta di tutti i toni del verde, come sono verdi e rigogliose le piantine coltivate nelle serre. Le donne assomigliano a delle rassicuranti assistenti di volo, con i cappellini da hostess e i tailleur in tinta.
Tutti i cinesi hanno in dotazione una piantina e un calice, che gli uomini in tuta blu mettono o tolgono in base alle necessità. Timur, il vecchio padre cieco, e la giovane Liù innamorata di Calaf, sono vestiti da sposi. In realtà Timur non è vecchio né invecchiato, e sembra più giovane del tenore coreano Rudy Park, che nella sua carriera quasi decennale ha fatto del ruolo di Calaf uno dei suoi cavalli di battaglia. Mentre padre e figlio si ritrovano in gran segreto e il popolo attende l’esecuzione del principe di Persia che ha osato sfidare Turandot, entrano i bambini vestiti da collegiali, con giacche celesti e pantaloncini blu. Ammirano l’orso nella teca, e pure Timur e Liù, esposti dentro a una vetrina come statue. È l’immagine pura dell’innocenza, cantano un canto soave e delicato (ed è uno dei momenti più belli dell’opera), e la folla chiede la grazia per il piccolo principe, raffigurato non come un giovanotto aitante ma come un bambino, uguale gli altri, chiuso solo dentro una teca. Ma la spietata esecuzione dev’essere compiuta, tutti i bambini, ordinatamente, vengono bendati dalle guardie carnefici e fatti inginocchiare davanti al proscenio, mentre sullo sfondo sfila Turandot in sella all’orso, salutando il suo popolo con la mano come farebbe la regina Elisabetta. È un ingresso fatale per Calaf, che se ne innamora al primo sguardo. Ed è un ingresso fatale per gli innocenti, perché al cenno di Turandot le guardie sparano sui bimbi uccidendoli tutti, per poi sollevarli come pacchi, uno ad uno, e riporli in fila in una delle teche.
A contrastare la crudezza della scena, irrompono i ministri Ping Pong e Pang, che si presentano come scienziati pazzi in camice bianco intenti a curare e studiare le piantine della serra, scherzando come gli amici di Rodolfo nella soffitta parigina della Bohème. I tre ridono e deridono Calaf innamorato di Turandot, ma sono inquietanti. Neanche le parole di Timur e la confessione d’amore di Liù riescono a persuaderlo (la celebre romanza “Non piangere Liù”). Timur, Calaf e Liù, insieme a Ping, Pong, Pang e alle guardie, sono ormai gli anelli tragici di una catena umana in cui ognuno vuol tirare l’altro dalla sua parte. Calaf sta al centro, tra la vita e la morte, tra Liù e Turandot che guarda la scena nella sua veste sfavillante. Ora le teche si illuminano di una luce di ghiaccio al neon, le piante sono rinsecchite, i bambini morti mostrano sul viso maschere grottesche e tragiche. All’improvviso la catena umana è attraversata da una scossa elettrica e i personaggi come in preda a un delirio cadono a terra rotolando all’indietro, richiamati dalla massa verde delle voci misteriose e lontane che invoca la morte. Così si chiude il primo atto e il secondo si apre con Ping, Pong e Pang abbigliati da pagliacci intenti a truccarsi. Scherzano sul destino di Calaf, pronti a diventare ministri di nozze o di un funerale, e ricordano tutti quelli che Turandot ha già mandato a morte.
La scena infantile e comica, in contrasto con la tragicità del racconto (“I ministri siam del boia!”), è molto divertente e i tre cantanti sfoggiano ottime doti attoriali e interpretative, oltre che canore, quando armati di retino, ombrellino e martello di gommapiuma tentano di acchiappare le bolle di sapone, o cercano di domare invano tre finti cavallini bianchi scalpitanti. È giunto ormai il momento di Calaf, e l’imperatore Altoum padre di Turandot, in piedi su un tavolo accanto ad altri tavoli dove giacciono esanimi Timur e Liù, lo scongiura di rinunciare e di partire. Ma Calaf insiste, “io chiedo d’affrontar la prova” e Altoum, che viene vestito con una tuta azzurra, collega nella teca posizionata al centro del palco un grosso tubo da cui sgorgano litri di sangue. Una fila di tavoli conduce come una passerella all’ingresso della teca, e Calaf si avvia al suo destino. Compare Turandot avvolta in un abito giallo scintillante, racconta la storia tragica della principessa Lou-Ling (“In questa reggia”) e mette in guardia Calaf (“Gli enigmi sono tre, la morte è una”), che risponde spavaldo “Gli enigmi sono tre, una è la vita!”. In un’atmosfera asettica e sospesa, con le teche infiammate di luce rossa, procedendo verso la teca che contiene Turandot in sottoveste, ormai ricoperta del sangue versato dai suoi spasimanti, il principe ignoto risolve i tre enigmi: speranza, sangue e Turandot. La principessa completamente insanguinata esce dalla teca e resiste a Calaf, che non vuole prenderla con la forza ma per amore e le propone un solo enigma: se riuscirà a scoprire il suo nome prima dell’alba, morirà. Calaf sale sul carro (ops, sull’orso polare) del vincitore e attende l’arrivo del nuovo giorno.
Turandot, disfatta anche fisicamente, si toglie la parrucca scura col diadema e la getta fra i corpi nudi delle guardie, accatastati ai piedi dei tavoli. Il terzo atto si apre con Liù e Turandot, le due sposine insieme. La principessa in sottoveste coi suoi capelli biondi naturali, che tanto somiglia alla divina Katia Ricciarelli ma davvero poco a una cinese di cinquant’anni fa, pettina e liscia i capelli di Liù rimasta senza velo. Al centro della scena si aggirano dei personaggi in abito scuro con grandi teste rosse e orecchie alla Mickey Mouse, mentre tre di loro in assetto da arrampicata scalano l’interno di una serra. Conducono Turandot dentro la teca a sinistra, avvolgendola con una sciarpa argentata, mentre Liù viene sollevata come un manichino e portata via. È il momento del “Nessun dorma” (con applauso a scena aperta per Rudy Park), poi dell’ingresso di Ping, Pong e Pang, di donne e uomini avvolti in coperte arancioni catarifrangenti simili a quelle che avvolgono la vittima di un incidente stradale, che si posizionano accanto all’orso polare steso a terra, e di uomini-ragno che camminando all’indietro a quattro zampe portano attaccati al corpo mazzi di palloncini bianchi. Al grido “Voglio Turandot” i palloncini volano in cielo, vengono ricondotti e rianimati i manichini di Timur e Liù e Turandot riappare nell’abito giallo. La principessa vuole il nome di Calaf ma Liù, pronta a morire per custodire il segreto, brandisce una pistola rubata alle guardie minacciando tutti. Tra le due c’è solidarietà in nome dell’amore (“Sì… Principessa… Ascoltami! Tu che di gel sei cinta”), poi anziché uccidersi col pugnale come da libretto, Liù dà la pistola a Turandot che la uccide, ben sapendo che così non saprà mai quel nome. La “Principessa di morte, principessa di gelo” è già innamorata, e rende omaggio a Liù seguendo il corteo funebre con la testa coperta da un velo nero di pizzo e un paio di occhialoni neri da diva americana. Dopo altri tentativi di resistenza, Turandot cede ai baci insistenti di Calaf e le luci si fanno bianche candide. La principessa viene spogliata dei suoi vecchi abiti e resta con una tunica grigia, canta il duetto d’amore con Calaf, che alla fine le fa indossare un vecchio pastrano scuro e un paio di anfibi (“Sei mia! Mia!”) come una Cenerentola al contrario, e le rivela finalmente il suo nome. Nella scena finale di grande impatto emotivo, il popolo vestito di nero sullo sfondo punta delle piccole torce verso il pubblico e scopre alcuni cartelli che compongono una frase: Chi ha paura muore ogni giorno. I colori e la finzione non ci sono più, restano il coraggio e l’essenzialità dei sentimenti.
La soprano Irène Theorin offre nel complesso una buona prova vocale in un ruolo così difficile, senza sbavature né cedimenti, sebbene la sua dizione non sia perfetta (senza i sottotitoli difficilmente si sarebbero capite le parole). Il tenore Rudy Park ottiene consensi grazie a un volume stratosferico, ma emettere suoni e cantare sono due cose diverse. Seppur corretta, non sembra adatta per il ruolo di Liù la voce della soprano spagnola Davinia Rodriguez, che infatti ha molto cantato e canta Mozart e Rossini. Buona prova per il basso Alessandro Spina, un Timur misurato ma poco calato nella drammaticità del personaggio, mentre piuttosto sottotono è apparso l’imperatore Altoum del tenore Stefano Pisani. Un bravo triplo per i tre ministri Ping, Pong e Pang (Andrea Porta, Marcello Nardis e Gregory Bonfatti). Completano il cast il mandarino Nicola Ebau e il principe di Persia Andrea Cutrini, il Coro Lirico Marchigiano Vincenzo Bellini diretto da Carlo Morganti, la Fondazione Orchestra Regionale delle Marche condotta dalla bacchetta del maestro Pier Giorgio Morandi e il complesso di palcoscenico Banda Salvadei. Una menzione speciale per il delizioso Coro di voci bianche Pueri Cantores D. Zamberletti diretto da Gian Luca Paolucci. La regia dello spettacolo, coprodotto col Teatro nazionale Croato di Zagabria, è di Stefano Ricci, le scene e le luci sono di Nicolas Bovey, i costumi di Gianluca Sbicca, i movimenti scenici di Marta Bevilacqua. Repliche il 29 luglio (serata con audio-descrizione), 4 e 13 agosto. Intanto stasera alle 21 di nuovo Puccini, col debutto della Madama Butterfly.
(foto di scena di Alfredo Tabocchini)
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Regia eccessiva per la voglia di lasciare il segno. Mitica la scena della protagonista a cavallo dell'orso. Sicuramente un omaggio alla grande Moira Orfei!
Appropriata proprio al titolo della stagione lirica "oriente" poi tutti a fare gli intellettuali a battere le mani anche se non hanno capito....
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La lirica è tradizione, questa mania di sconvolgere tutto, per creare che cosa? I due “registi” alla loro prima esperienza nel” bel canto ” si sono definiti umilmente: due parroci di campagna che dicono messa in Vaticano. Ma questa ammissione non giustifica lo scempio che hanno combinato.I commenti all’uscita sono di coloro che per “moda” si sono trovati allo Sferisterio e cercano di dire una cosa che li faccia sembrare degli esperti
Vedendo l’opera l’unico pensiero che mi è venuto è che il regista, la sera prima di iniziare a lavorare su questa regia, avesse mangiato pesante a cena…
il voler stupire e scioccare a tutti i costi (la scena dell’esecuzione dei bambini e’ da linciaggio non solo mediatico),come se per questi due “signori”,non mi sento di definirli ne registi ne artisti,fossero gli unici sistemi per farsi apprezzare hanno portato alla creazione di una mostruosita’ senz’anima e senza senso alcuno.Il voler seguire la moda oramai in voga da anni nel cinema nei fumetti etc…di prendere cose gia’ fatte,viste e riviste e miscelarle per poi cercare di creare qualcosa di nuovo oltre a puzzare come il pesce dalla testa fa’ molto ben comprendere la pocchezza concettuale e di idee dei due signori in questione.mettere in scena Turandot insanguinata come Carrie nel film di De Palma,oppure nel secondo atto quasi a suggerire stilisticamente data le presenza del povero orso ed anche di un iceberg il possibile arrivo del titanic….Liu e Timur che vengono..nel terzo atto riattivati come i Cybvermen in Doctor Who,orsi inquietanti ballerini come nei migliori videogames horror ed ai videogames si deve anche la caratterizzazione dei ballerini…il rallenti che suggerisce quasi una scena di Matrix ..i ballerini che entrano in scena simulando il passo del ragno quasi come se fossimo nell’esorcistae tc…per chiudere con la frase di Borsellino neanche fossimo ad una recita di 5 elementare…L’opera e’ ben altro…nel nostro secolo si pensa che qualsiasi cosa possa essere permessa e che tutto sia arte…forse di dovrebbe rivedere il concetto..
p.s. se si considera turandot una fiaba per una singola frase presente nel libretto forse si e’ sbagliato mestiere.
Colpa imperdonabile lasciarsi scippare dalla piccola Torre del Lago Alfonso Signorini alla regia: qualcuno ha dormito. Però a Enrico Letta lo spettacolo è piaciuto e la sensibilità artistica di Enrico Letta è uno spettacolo in sé, una regia in sé, un’esplosione di erotismo in sé.
Una vergogna, una buffonata, una indecenza… E per fortuna che la stagione è dedicata a P. Ricci… Come spettatore mi sento ingannato e truffato. E la scena del massacro dei bambini del coro sarebbe da denuncia penale. Spero che i genitori ritirino i loro figli da questo evento traumatico.
È proprio disorientando l’Oriente che l’Oriente, disorientato, cadrà ai piedi di Macerata.
Non ho visto l’Opera, non posso esprimere un mio personale giudizio. Ma dai commenti sopra, dalla recensione, dalle foto, mi pare ci troviamo dinanzi il solito problema, ovvero: questi registi, chiamiamoli moderni, messi di fronte ad un’opera d’arte in sè compiuta e firmata da grandi Maestri,hanno o no la consapevolezza della loro misura in proporzione quando si cimentano in interpretazioni del tutto soggettive rispetto quell’Opera che ha avuto il suo preciso travaglio artistico prima di venire in luce? La questione “chiave interpretativa” in cui tutto è lecito fare fino a manipolare, sembrerebbe del tutto scontata considerato che, dall’Espressionismo in poi, non è più l’oggetto artistico – un quadro piuttosto che una poesia , un libro o un libretto d’opera- il fulcro dell’arte, ma il soggetto, “l’artista” che si occupa di fare arte, al punto che , doverosamente, ci si chiede se la rappresentazione che ne fa sia più una sua messa in scena di quanto dovrebbe essere una messa in scena. Ecco il punto. Chi, ditemi chi, al di fuori della messa in scena di un’opera lirica, potrebbe altrettanto permettersi di , non so, spostare le virgole all’Infinito di Leopardi o aggiustare a piacimento i chiaroscuri di Caravaggio? Secondo me, deve ancora nascere quel temerario. E allora perchè nella lirica tutto è concesso e approvato dalle masse ? Perchè, a mio avviso, domina l’ignoranza in materia, e perchè i nostri sensi , oggi, cercano più che la verità, la suggestione. E veniamo quindi a Turandot. Quanti sanno, ad esempio, che quest’Opera rimase incompiuta per la morte di Giacomo Puccini e che, da prendere ad esempio di massima riflessione, la sua prima rappresentazione fu alla Scala nel 1926 sotto la direzione di Arturo Toscanini, non so se mi spiego, Arturo Toscanini, il quale arrestò la rappresentazione a metà del terzo atto, due battute dopo il verso «Dormi, oblia, Liù, poesia!» alla morte di Liù, dopo l’ultima pagina completata dall’autore, rivolgendosi al pubblico con queste parole: «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto.» Le sere seguenti, l’opera fu messa in scena con il finale rivisto di Alfano, ma fu diretta da Ettore Panizza. Arturo Toscanini non diresse mai più l’opera.
Ecco quanto. Questo è rispetto per un’Opera d’Arte – in sè perfetta e dunque non perfettibile in alcun modo e da nessun altri- e per il suo creatore . Dobbiamo semplicemente tornare ad essere seri. Tutto qua. O gli applausi , le lodi, degli intervistati al dopo Opera, sono inutili e vuoti come chi li esprime.