E mi ricordo ancora… Novembre regala una spendida estate dei morti

DAVOLI A MERENDA - Domani (venerdì) l'omaggio a Ugo Giannangeli, la prossima settimana il ventennale della nascita al Cielo di Tarcisio Carboni - VIDEO
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E mi ricordo ancora…

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di Filippo Davoli

Novembre, nel colmo della sua tradizione, ci ha regalato anche quest’anno una splendida estate dei morti, prolungata fino a San Martino. Chissà perché, in questo periodo, l’atmosfera si adatta alle nostre festività ed esegue la sua partitura miracolosa, fatta di fresco sole autunnale, un azzurro compatto e indistruttibile e, addosso, quella sensazione di dolce malinconia che solo in questo periodo dell’anno è dato provare.

Per noi maceratesi, novembre non è solamente il mese da dedicare ai nostri cari che non ci sono più (anche se io, confesso, è l’unico periodo dell’anno che mi tengo a debita distanza dai cimiteri, dove confluisce un’orda di barbari preordinata a modificare l’appuntamento col centro commerciale con la visita ai defunti – e lì, nel cimitero che gronda profumi, ma anche odori, bisbigli e confusione, il raccoglimento non si sa più cosa sia: si incontrano gli amici, li si salutano con un pizzico di maggiore contegno di quanto accada di fuori, ma l’occhio scivola invariabilmente sugli assetti floreali dei vicini, quasi vi fosse un concorso a premi per chi ha la lapide più fiorita e brillante).

Manco con grande soddisfazione l’appuntamento da non mancare assolutamente. Lascio scemare l’attenzione (del resto, il parcheggio del cimitero è talmente angusto che toglie, già dall’arrivo in zona, quell’intenzione di rilassato dolore, che veste tanto bene almeno una volta l’anno) e ci rivediamo verso dicembre. I miei lo sanno e ci si sono abituati. Per fortuna.

Ma noi, i nostri morti, i nostri cari volti indimenticabili, ce li portiamo addosso, nella pelle e nel sangue. Ne abbiamo spesso ereditato una forma, un tic. Altre volte, un modo di fare o di dire. La spoglia mortale – che pure è opportuno visitare, per quello che significò quando camminava su questa terra – si smaterializza e ricompone nel ricordo, mi capita – non so a voi… – di parlarci sovente e, talvolta, di ottenerne qualche segnale, qualche curiosa replica.

Ugo Giannangeli

Ugo Giannangeli

Domani, venerdì 13, alle 21,15, avremo modo di ricordarne uno al teatro “Lauro Rossi”: grazie all’affetto di Sante Latini che ha organizzato la serata, omaggeremo Ugo Giannangeli, il grande attore, il superbo regista e interprete che Strehler voleva a Milano e che disertò l’appuntamento con un successo professionista assicurato per non lasciare Macerata e la famiglia. Piccoli eroismi significativi. Ugo Giannangeli era la sua maschera curva, la sua voce calda e irripetibile, il riempimento della scena con un carisma ineguagliato e, contemporaneamente, l’ironico quasi cinico, e l’appassionato innamorato nella discrezione, che ha fatto scuola a tutti gli attori maceratesi oggi in scena. Non insegnava la dizione a pappagallo, preferiva offrire i praticabili del palcoscenico per una gavetta solida e fondante. Ugo è uno di quelli che non dimenticherò mai.

Passa una settimana e arriviamo al ventennale della nascita al Cielo di Tarcisio Carboni, il nostro “vescovo santo” che – anche se forse non salirà mai agli onori degli altari – noi tutti lo sappiamo che era santo. Aveva quel sorriso che seduce, quella premura che ti faceva sentire amato, importante, anche se non eri nessuno. Come dice il papa, aveva “l’odore delle pecore addosso”, apostolo instancabile, premurosissimo soccorritore degli ultimi e dei lontani, spesso con interventi “di tasca propria”. Missionario per costituzione, innamorato di Cristo e della Vergine Maria, Tarcisio, che invece all’anagrafe di Ortezzano venne registrato col nome di Francesco Giovanni e che Tarcisio non ci si chiamava. Anche se ci veniva chiamato da sempre, già in famiglia. Il nostro vescovo Nazzareno – che lo richiama fortemente nel tratto e nell’umanità (e anche questo l’abbiamo notato tutti) – lo ricorderà il 20 p.v. in cattedrale, insieme a tutti gli altri vescovi e presbiteri che sono passati al Cielo.

Mons. Tarcisio Carboni

Tarcisio Carboni

La maceratesità non è tanto un fatto d’anagrafe o di luoghi, quanto questo filo sottile e tenace che ci unisce l’uno all’altro, che ci permea e disegna, in una lingua aspra e grottesca a cui non sapremmo rinunciare; anche perché “sa” dire – spesso meglio che l’italiano – certe sottolineature intenzionali che caratterizzano la nostra gente, ognuno di noi. Certe battute a fior di pelle, certi calembour che divengono aneddoti indimenticabili (penso a Briscoletta e a lu Toscanu, o a Fruscì…).

Io me li ricordo bene tutti quanti. Mi stanno sotto pelle, negli occhi, e sono felice che ci rimangano. 



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