Da Stefano Casulli, dottore di ricerca in Scienze dell’Educazione, Università di Macerata riceviamo:
«Se c’è un elemento positivo nell’episodio avvenuto all’Istituto “Corridoni” di Civitanova Alta (leggi l’articolo), sta nel fatto che tanti, tantissimi si sono espressi a riguardo. E per assurdo, la cosa veramente interessante non sta nel famigerato “taglio di capelli” avvenuto a scuola, quanto nelle argomentazioni e prese di posizione di chi ha sostenuto la legittimità di quell’intervento. Insomma, i cosiddetti sforbiciatori. In particolare, credo che l’intervento di Giancarlo Liuti (leggi l’articolo) su Cronache Maceratesi raccolga molte delle cose dette da tanti altri. Cosa sostiene? Andiamo con ordine.
1. La bontà della sforbiciata e una certa idea di scuola: dopo aver plaudito alle “molteplici attestazioni di stima” per la professoressa, ci spiega che in fin dei conti per un ragazzo che mangiucchia una merendina durante la lezione una sforbiciata (scherzosa, suvvia!) ci sta. E perché ci sta? Ci sta perché bisogna difendere “il sacrosanto principio della differenza di ruolo tra chi ha il potere di guidare e chi ha il dovere di lasciarsi guidare”. Questa idea della scuola come luogo asimmetrico dove bambini e ragazzi sono obbligati ad andare per “essere guidate”, plasmate da persone che hanno delle conoscenze, è tanto vecchia quanto assurda. Chi ha bisogno della forza e dell’autorità per generare interesse e curiosità in chi ha davanti non è un buon docente. Le inadeguatezze di scuole-prigioni fatiscenti non ci esimono dall’impegno a coinvolgere, responsabilizzare e amare i ragazzi che abbiamo di fronte: per farlo, serve preparazione, serve desiderio, serve curiosità, non voglia di comandare. Il ruolo del docente è difficile, oggi ancor più complesso, alla luce dei mutamenti culturali delle nostre società e dei tagli ai fondi per l’istruzione. Ma non per questo è legittimo qualunque atteggiamento; anzi, solo un’analisi seria di questi cambiamenti può aiutarci a fare un passo avanti nell’ascolto e nella capacità di iniziativa. Qualcuno potrebbe dire: “oggi, a casa come a scuola, la fine dell’autorità ha portato caos e delegittimazione della figura genitoriale”. È la vulgata dei nostri tempi, rigurgito anti-sessantottino proveniente da ogni parte. Per fortuna il principio di autorità è morto (speriamo si estingua rapidamente!), e semplicemente non funziona più. Il richiamo militaresco all’ordine non funziona più. L’obbligo di fare i compiti non funziona più. Nello stesso tempo l’imposizione della regola cede sempre più il passo a giovani che pretendono di fare ciò che vogliono. Più imponiamo regole e più vediamo migrare i ragazzi verso altri lidi, altri interessi, altri stimoli (spesso negativi, perché in larga parte di stampo consumistico). Si tratta di cominciare a costruire regole condivise e di rispondere alla sfida autorevole dell’essere convincente, interessante, sensato per chi si ha di fronte. La scuola non è un autobus con un autista (professore) e i passeggeri (gli studenti). L’avventura della conoscenza è (dovrebbe essere) piuttosto un viaggio in treno, dove si vedono paesaggi, sentono profumi (e spesso puzze!) e soprattutto si incontrano persone. Persone con cui scambiare punti di vista e da cui raccogliere emozioni, interessi, racconti, conoscenze e saperi. Cui raccontare i propri. Adulti e ragazzi, professori e studenti, sono tutti viaggiatori. Ma solo le persone interessanti possono muovere la curiosità degli altri viaggiatori. Soprattutto dei viaggiatori di oggi.
2. In secondo luogo Liuti prova a descrivere la “moda” della cresta. Senza citare studi antropologici sul consumismo né sul valore simbolico del proprio abbigliamento, è sufficiente chiamare a testimoniare la storia per ridere di discorsi alquanto fumosi e decisamente inadeguati. Il 5 novembre 1965, parlando di alcuni ragazzi dai capelli lunghi che nei mesi precedenti avevano campeggiato e suonato la chitarra in Piazza di Spagna a Roma, un giornalista del Corriere della Sera di nome Paolo Bugialli scrisse in terza pagina: “Sono brutti […] infestano la scalinata di Trinità dei monti […] tipi di apparente sesso maschile che portano i capelli lunghi quasi come le donne […] secondo una moda mutuata dai Beatles, i quattro giovanotti che l’Inghilterra anziché premiare, avrebbe dovuto […] esiliare in Patagonia […]. Essi, dicono, esprimono il tormento della bomba e bisognerebbe buttargliela […]. D’ora in avanti verrà esercitata una stretta sorveglianza sulle scalinate e alle frontiere […] Non si entra in Italia coi capelli lunghi”. Nel 2013 si legge così (cito Liuti): “Nelle ‘creste’ di oggi […] c’è soltanto una piatta imitazione, c’è soltanto la moda, quella futile moda che Giacomo Leopardi definiva ‘sorella della morte’. Mi pare un po’ poco, un po’ sciocco e, perfino, un po’ pericoloso”. Non ci sarebbe troppo da aggiungere. È sufficiente segnalare che la rivolta di quella generazione nacque innanzitutto da una rottura di stile. Uno stile che uniformandosi ha contribuito a costruire quella nuova realtà sociale che sono “i giovani”, e che prima degli anni ’60 non esistevano, schiacciati tra l’essere bambini e l’essere adulti. Insomma, chiacchierare in modo tanto superficiale dei gusti e degli stili rischia di essere semplicemente reazionario, parte integrante di quel mondo “costituito” che i giovani di allora e di oggi cambierebbero (e cambieranno). Ma lasciamo da parte la storia barbuta, torniamo ai fatti d’oggi: Liuti, come altri, si ostina anche qui a pensare i ragazzi come persone da mettere a tacere (“devono abbassare la cresta”, scrive alla fine), tenuti a obbedire. Mi piace invece pensare, in un’era in cui la speranza e il futuro non sono parole all’ordine del giorno dei giovani, che la cresta sia una chiamata per i capelli che il cielo fa a ciascuno di noi. Ad alzarla, la testa. A prendere la parola. A non chinarsi davanti a chi ordina per puro desiderio di comando e controllo, tanto a scuola quanto a lavoro o in politica. Accettiamo la sfida di interessare, di far innamorare, di emozionare i ragazzi. Corriamo il rischio di fallire, di capire, di tradurre e rendere comprensibile, di dare potere agli altri cercando impegno e responsabilità. Tentiamo la scommessa di far prendere un libro in mano per piacere. Aiutiamo a ritessere il senso che sta nelle storie, nei miti, anche nelle creste, nell’underground fatto di rap e tatuaggi, di personaggi e di mode. Proviamo curiosità nei nuovi linguaggi, nei tantissimi “mi piace” di Facebook. Chiediamoci perché Ask e Spotted siano tanto importanti per i ragazzi. E togliamoci dalla testa l’idea dell’adolescente rammollito e pigro che riempie tanti noiosi discorsi pseudo-adulti: probabilmente chi non vi ascolta non ha proprio niente di bello da ascoltare. Perché anche mangiare una merendina durante l’ora di scuola, come quel ragazzo di Civitanova, è comunque un gesto di ribellione che denuncia forse la noia di una lezione come tante altre.
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se devo pensare mio figlio con un professore come questo che non vuole essere nè guida,nè accompagnatore,nè ispiratore per i suoi studenti,tanto vale che si studi i libri a casa e vada direttamente a dare gli esami,il prof. è superfluo.
Allora per esprimere ribellione verso questo intervento quante merendine bisogna mangiare?
Io credo che chi insegna ha fallito come quelli prima di loro se con il loro insegnamento a portato tutto questo, i giovani hanno ragione cerchiamo di capire il loro linguaggio e fare le cose che si aspetterebbero da chi li ama…
Signori vi voglio dire una cosa, l’insegnante non è mica un baby sutter e la scuola superiore non è scuola dell’obbligo, ovvero se hai voglia di andare vai, se hai voglia di apprendere apprendi. Molti ragazzi ovviamente non tutti, non bisogna generalizzare, vedono la scuola come un parcheggio, come un posto dove si evita di lavorare e si permettono pure di infastidire chi ha voglia di studiare. Il professore o la professoressa può fare di tutto ma dall’altra parte c’è il vuoto, colpa della famiglia, della società, della televisione, non lo so ma per favore non giustifichiamoli; non hai voglia di studiare vai a lavorare, come succedeva qualche anno fa. Dopo non ci lamentiamo che l’Italia non produce più e non abbiamo governi stabili, questi ragazzi votano, questi ragazzi dovrebbero pagare con il loro lavoro le pensione e invece cosa fanno? Niente e li giustifichiamo pure!
Negli anni ’60, complice anche le migliori condizioni economiche (soldi in tasca degli adolescenti, che prima non avevano), il mercato si è accorto di una nuova categoria di consumatori, che prima non esisteva.
Milioni di “giovani” consumatori in tutto il mondo (è più o meno di quel peiodo l’invenzione della parola “teenager”) a cui bisognava “vendere” prodotti e beni per la loro età, che prima non erano presenti.
A tal proposito interessante vedere i dialoghi (minuto 39.50 e seguenti) per farsi un’idea, sebbene in un contesto “leggero”.
Più complicato invece andare d analizzare le motvazioni della protesta o della “rivoluzione” del ’68 e della cultura (o controcultura Hippy)
Ma di sicuro le creste odierne di motivazioni culturali o di contestazione ne hanno veramente poco….
Difficile trovare regole condivise quando si rifiuta il dialogo o quando l’interlocutore ha 15 anni e l’unico interesse che dimostra è quello di dare libero sfogo agli ormoni adolescenzaili inquieti, o quando mangia o magari dorme. il nostro dottore di ricerca è più banale di quella generazione di sessantottini mitizzata e ormai convertita al posto fisso che difende. Qui non si tratta di acconciature: chi se ne frega delle creste, dei capelli rasati a metà, dei piercing al naso. Il problema è dare un senso a questi ragazzi ai quali la generazione cui il ricercatore fa riferimento ha tolto tutto: tradizioni, valori spiritualità …lasciandosi dietro il vuoto che è stato riempito dal consumismo di ogni tipo.
Non intendo giudicare il fatto in se stesso anche perchè non lo conosco. E’ difficile in classi “pollaio” gestire tanti ragazzi che, nella maggior parte dei casi sono educati, ma bastano pochi maleducati per renderle invivibili. La scuola dovrebbe essere selettiva anche sotto questo aspetto.