La notte di Carmen,
l’alba di Carmen

DAVOLI A MERENDA - Dentro il successo di Macerata Off

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fildi Filippo Davoli

Come ho asserito anche in C. Cavour, durante la notte bianca dedicata all’opera (leggi l’articolo) in cui sono stato invitato a parlare di Carmen, pur essendo contrario – in linea di principio – all’identificazione della notte bianca come evento culturale, ho accettato volentieri per la tematica del capolavoro bizetiano.

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La musica francese dell’800, al tempo del melodramma, non conosceva gli splendori propri di quella italiana. I francesi – si sa – sono intellettuali per statuto. Il che a volte dà frutti mirabili, mentre altre volte tarpa le ali.

La Francia del melodramma prima di Carmen era appiattita sulla “Comique-Opera”: una sorta di canone fisso, di genere, con intrecci di trama legati a figure fisse, con il lieto fine obbligatorio e la possibilità per autori ben fedeli al cliché e finanche bravi, ma non eccelsi, di assurgere all’Olimpo della notorietà.

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corso-cavour-notte-dellopera-1-300x200Un po’ la sorte che sta subendo oggi da noi la letteratura: si trattava là – come si tratta oggi qua – di industria culturale: un pacchetto preordinato per vendere. Anche noi abbiamo una “Comique-Opera” letteraria: si chiama “noir”, si chiama “minimalismo”, si chiama “generazionalismo”. Si chiama, in buona sostanza, “canone del giudizio”, “pre-giudizio”. Spesso finisce purtroppo per chiamarsi volgarità.

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Bizet irrompe in questo scenario e spiazza un mondo con un mito reale: Carmen. Carmen è una donna che rompe gli schemi, che non si può imbrigliare, che non si lascia legare, che – per fermarne l’assoluta autonomia – bisogna uccidere. Carmen, se volete, è una metafora perfetta dell’arte.

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Pensate ai danni che riesce a fare il canone del giudizio – stabilire cioè a priori ciò che vale e ciò che non conta, ciò che va accolto e ciò che va scartato, in base a convincimenti teorici (o di altra natura) preordinati e applicati a qualunque testo già da prima di leggerlo, o di ascoltarlo (nel caso della musica): la prima accoglienza di Carmen fu aspramente criticata dal pubblico francese, non riconosciuta nella sua effettiva portata, anche per l’imbarazzo dirompente di fronte a una protagonista che – invece di scivolare nel consueto lieto fine – viene uccisa a coltellate sulla pubblica piazza. Nemmeno una più borghese morte lenta da tisi. O un esilio dorato nell’oblio generale: no. Carmen è donna dalle tinte forti che va incontro con sprezzo del pericolo alla sua sorte senza coperture difensive e senza derogare in nulla alle sue priorità. Giuste? Sbagliate? Non sta a noi dirlo: senz’altro intere.

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corso-cavour-notte-dellopera-3-300x226Accoltellata sulla pubblica piazza: pensate al grande disorientamento di un pubblico abituato ai fiori d’arancio, pacificanti e asettici; un fastidio incredibile per un gusto ormai codificato, emblema del quieto vivere, con la musica ridotta a istituzione musicale.

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L’istituzione… è un’arma a doppio taglio, l’istituzione. Da un lato è l’ineliminabile strumento di cui una comunità si dota per autoregolamentarsi, altrimenti sarebbe il caos. Dall’altro può costituire un pericolo, quando ad esempio supera i propri ambiti e dilaga in settori che non le competono direttamente. Ma anche dall’altra parte – dalla parte dell’arte e degli artisti – l’istituzione è di per sé un supporto importante (perché se l’istituzione è il corpo di una comunità, l’arte ne è in un certo senso l’anima), ma può diventare un pericolo.
L’arte, come Carmen, è di suo fondamentalmente anarchica: non nel senso di una guerriglia di principio all’istituzione, ma certamente nel senso che si alimenta di categorie che, pur essendo “nel tempo”, esulano “dal tempo”: sono oltre, più in là, sia pure solo un po’ più in là.
Quando l’arte si codifica, quando si lascia ingabbiare, quando si irrigidisce e si istituzionalizza – in un certo senso quasi sostituendosi all’istituzione, o diventando essa stessa istituzione – i motivi possono essere soltanto due (e talvolta non sono nemmeno in contraddizione): si tratta di industria culturale, oppure chi la fa deve far leva su categorie esterne ad essa per ottenere un riconoscimento.

È il principio di quella fastidiosa autoreferenzialità (o referenzialità incrociata) che ammorba da qualche decennio le nostre patrie lettere e non solo.

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notte-dellopera-corso-cairoliDicevamo di Carmen: Bizet cerca la sua eroina fuori della Francia. Chissà quanti di noi, assistendo a una rappresentazione della Carmen, abbiamo dimenticato per un attimo che Bizet era francese e non spagnolo: il risultato si chiama “esotismo”, ossia richiamo dell’esotico, introitazione di una serie di elementi culturali e musicali esterni, provenienti – in questo caso – dai caldi paesi latini, a cominciare dalla Spagna.

Carmen è, per così dire, un’extracomunitaria. Un punto di fuga da una Francia culturalmente moribonda, al fine di rendere possibile una ricognizione in extremis, un riscatto, un rilancio, una riapertura.

Anche nella nostra letteratura italiana contemporanea abbiamo bisogno di una Carmen disposta a scendere dall’Olimpo istituzionalizzato per salvare la poesia.

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Ma anche nella nostra quotidianità esiste Carmen. Anzi, ce ne sono molte: si chiamano diversità culturali, sociali, tradizionali, linguistiche. Irrompono nella nostra vita allo stremo e scuotono dalle fondamenta la nostra presunta rispettabilità codificata. Come diceva nella medesima notte bianca di Corso Cavour l’amico poeta albanese Gezim Hajdari, “è sbagliato parlare di integrazione; dobbiamo parlare di interazione”. Integrazione, infatti, è ridurre alla “comique-opera” la grande energia vitale di Carmen. Interazione è aprirci a un confronto dialogico, da cui rinascere insieme arricchiti entrambi (era, a ben guardare, il medesimo desiderio che Pasolini auspicava per l’Italia già quarant’anni fa).

notte-dellopera-sferisterioNel 2005 ho incontrato la mia Carmen: erano i ragazzi extracomunitari affidati all’ACSIM, che con la loro parola spuria, integra, sporca, hanno ridato fiato alla mia. La schiena, poi, coi suoi dolori invernali spesso insopportabili e la necessità di ricorrere a una carrozzina per non rimanere in casa, mi ha insegnato a guardare le case da un taglio differente, scoprendo cornicioni istoriati, balconi che in quarant’anni non avevo mai notato, quasi mi trovassi in un’altra città. Anche questa, ritengo, è una Carmen: è la grazia dello stupore, uno stupore che salva.

Ho scritto una poesia che è un po’ la metafora compiuta di questo viaggio-sorpresa. Generalmente non sono avvezzo a pubblicizzarmi, ma trattandosi di ferragosto alle porte ve la regalo. E ci rivediamo su queste colonne a fine mese:

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I miei figli arroccati sul pennone

miracolo di un sogno ad occhi aperti

giù per il gorgo delle cupe, oppure

la distesa azzurrissima del grano

che ogni vento scompiglia, ma restando

aggrappati alle mura, in cima al cuore

che naviga il suo sogno. Tornare dentro

l’agitazione cosmica del microbo

che tocca nel suo minimo cammino

le molle universali, che scombina

gli ingranaggi del mondo.

È questo il meccanismo del randagio.

La notte chiede di essere percorsa

a piedi, con il corpo, dentro uno spazio.

La casa come l’auto

è un rimedio ingannevole che priva

del piacere di perdersi, guardando

con la testa all’insù, di lasciarsi

abbracciare dal freddo e dal caldo,

di ragionare a voce alta di tutt’altro

rispetto a quello che si congettura

quando il corpo è al sicuro.

Assassino il mestiere: la corteccia

entro cui muovermi senza molto rischio.

Guardo il ricordo

farsi mio memoiale nella luce

e sforo nella bella lontananza

che è ricongiungimento.

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filippo.davoli@gmail.com



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