Soldi pubblici
e uffici postali

S’invoca la “spending review” ma poi non si accetta di subirla. Però Montecassiano, Piediripa e Sforzacosta hanno ragione

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liuti-giancarlodi Giancarlo Liuti

 Negli uffici postali di Sforzacosta, Piediripa e Montecassiano si possono effettuare versamenti in denaro ma non c’è il bagno e quell’altro genere di versamenti bisogna farlo altrove. E’ stata questa, all’inizio, la risibile motivazione della chiusura di queste sedi. Ma davvero si poteva credere che “Poste Italiane” – una delle massime aziende pubbliche nazionali, in totale proprietà del ministero dello sviluppo economico, 14 mila diramazioni periferiche, 150 mila dipendenti  – non fosse in grado di sobbarcarsi l’istallazione di tre water e relativi sciacquoni? Un successivo comunicato, infatti, è stato, per così dire, meno esilarante. Eccolo: il taglio si giustifica col fatto che Macerata e Montecassiano hanno sette uffici postali per 43 mila abitanti, mentre ad altre realtà territoriali marchigiane di analoghe dimensioni demografiche, vedi Jesi, ne bastano quattro. Perciò la questione “cessa” di riguardare i “cessi” e ha tutta l’aria di rientrare, magari indirettamente, nel capitolo che va sotto il nome di “spending review”: ridurre la spesa pubblica e, via via, il debito dello Stato.

protesta-poste-0-300x225La “spending review” è un’espressione che quando viene considerata in astratto e su grande scala trova il consenso di una larghissima parte dei cittadini (basta con gli sprechi, basta coi doppioni, si riduca il superfluo, lo Stato faccia un passo indietro!), ma poi, quando dai proclami paraideologici si passa al concreto delle situazioni reali, quegli stessi cittadini che s’indignano per la manica larga dello Stato levano un grido non meno indignato in difesa dei loro sostanziali interessi quotidiani. Come dargli torto, visto che la scomparsa delle poste a Sforzacosta, Piediripa e Montecassiano non può non comportare pesanti disagi per la gente che oggi se ne serve? Ma avrebbero ancor più ragione se per anni non si fossero accodati alla qualunquistica e mugugnante litania di uno Stato parassitario che sperpera risorse, stipendia fannulloni, mantiene attività inutili e pratica il flagello predatorio delle tasse.

Sono vere entrambe le cose, sia che l’Italia ha l’urgenza di una “spending review” sia che quei tre uffici corrispondono a legittime esigenze di migliaia e migliaia di persone. Gli sprechi da eliminare? Probabilmente sono tantissimi, anche se molto meno di quanto non appaia dalla tonante vulgata dell’antipolitica (capita spesso, infatti, che, allorché se ne considera uno, alla fine salta fuori che proprio spreco non è). Resta comunque una contraddizione: per un verso siamo convinti che la presenza “spendacciona” dello Stato nella società vada ridimensionata, ma per l’altro verso, quando lo Stato accenna a stringere la cinghia, scopriamo che quella presenza è essenziale per la soddisfazione di nostri sacrosanti bisogni.

  Se 14 mila uffici postali sono troppo costosi per uno Stato ridotto quasi in miseria, è chiaro che chiuderne, qua e là, un certo numero sarebbe un pur piccolo passo nella faticosissima strada del risanamento. Ma quali chiudere? Noi, cioè la cosiddetta gente comune che un’ultradecennale idolatria dell’individualismo ha disabituato a pensare in termini collettivi, ce la caviamo con una stretta di spalle: “Se ne chiudano altri, da qualche altra parte. Ma i nostri no, debbono restare in funzione”. Un fenomeno simile si sta verificando in quel di Fermo, dove l’idea teorica e astratta di abolire le Province avrà di sicuro parecchi proseliti nell’antipolitica e nella stessa politica, ma adesso, di fronte alla probabilità che scompaia la loro Provincia (attenzione: una delle più discutibili d’Italia), si comincia a gridare: “Le altre sì, ma giù le mani da quella di Fermo!”.

  A Sforzacosta, Piediripa e Montecassiano – grosso modo quindicimila abitanti – si formano comitati di protesta e si raccolgono firme contro la chiusura. Marco Menchi, consigliere comunale di Macerata, denuncia “l’assurdità sociale ed economica” di eliminare l’ufficio di Sforzacosta la cui utenza va al di là dei confini municipali. Il consigliere regionale Angelo Sciapichetti ha presentato una mozione in cui si chiede al presidente Spacca di intervenire nei confronti del ministro Passera e dell’amministratore delle Poste: “Quest’azienda è in attivo e non è concepibile che persegua un progetto di razionalizzazione destinato a impoverire così duramente i servizi pubblici”. Il sindaco Romano Carancini ha parlato di “esproprio sociale”. I parlamentari Mario Cavallaro e Salvatore Piscitelli hanno rivolto un’interrogazione al ministro Passera. E  cortei, blocchi stradali, la minaccia di ritirare libretti e depositi.

  Per quanto non sembri, la grande madre globale di questa piccola guerra locale è, sullo sfondo, la disputa socioeconomica d’alta scuola fra coloro che sostengono le teorie “keynesiane” (in soldoni: viva lo Stato!) e coloro che privilegiano il verbo “thatcheriano” o “busciano” (in soldoni: viva il Mercato!). E il governo com’è? Statalista o liberista? Non saprei. A giudicare dai fatti, il suo massimo impegno sta nel far quadrare i conti, come gli impone l’Europa. Quindi è “contista”. E intanto, in bilico sulla testa di tutti, statalisti e liberisti, incombe la ghigliottina della crisi con l’enorme difficoltà di venirne fuori.

Ora, per quel pochissimo che può valere, la mia idea è che la reazione di Sforzacosta, Piediripa e Montecassiano sia giusta e mi auguro che abbia successo. Perché, nonostante inefficienze, sperperi e clientelismi, lo Stato – il “pubblico” – eroga quei servizi fondamentali per la tenuta del consesso civile che le logiche di mercato non sono in grado di garantire. Sarei dunque uno statalista superato dai tempi? Può darsi, anche se penso che lo Stato – meglio: il modo con cui lo si è a lungo gestito – una mano sulla coscienza dovrebbe pur mettersela. Vedo però che la sorte di essere superati dai tempi sta toccando pure agli antistatalisti, la cui tetragona fede nel mercato appare incapace di risolvere i problemi che essa stessa ha creato.

Ma soprattutto vorrei che ci si rendesse conto della gravità e della complessità della situazione italiana, europea e dell’intero Occidente, e la si smettesse di protestare visceralmente contro la presenza del “pubblico” nei rapporti sociali senza considerare – ma poi accorgendosene quando gli auspicatissimi tagli colpiscono noi – che dalla soppressione o dalla riduzione di certi servizi consegue un marcato peggioramento della nostra vita quotidiana.

Morale? Bacchette magiche non le ha nessuno. Né Menchi, né Sciapichetti, né Carancini, né Cavallaro, né Piscitelli, né, purtroppo, Mario Monti. E figuriamoci io, che da tempo mi trovo in totale confusione. Propongo solo una cosa: ragionare, riflettere, valutare i pro e i contro, rifuggire dall’ingannevole mito della botte piena e della moglie ubriaca, evitare i trabocchetti della demagogia, puntare a compromessi il più possibile equi, non lasciarsi prendere dalla suggestione e dall’illusione che basti urlare tutto e il contrario di tutto.



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