I PROVERBI
di Mario Monachesi
Il primo di febbraio annovera due proverbi che così recitano: “Se calenna se ne ‘rvè / de l’inverno simo da pè”; “Quer che fa calenna / tuttu lu mese attenna”. Il proverbio che invece interessa il giorno due sentenzia: “Cannela e Cannelora, / de l’inverno sémo fòra, / se cce negne e se cce pioe / ci ni sta quarandanove; / se cce dà sole e solellu / c’è quaranda dì d’inverno”. Visto e “toccato” che quest’anno sia il primo che il due febbraio sono stati giorni di acqua, neve e vento, non ci rimane che rassegnarci ad altri quarantanove brutti giorni atmosferici. Il che sarebbe come dire, fino al ventuno marzo, cioè inizio della primavera. Ci consoli però il detto teso a ricordare che se i giorni della merla (29,30 e 31 gennaio) saranno veramente freddi, come lo sono stati quest’anno, la primavera sarà puntuale e bella. Staremo a vedere. Del resto altri proverbi di febbraio, non sostengono cose diverse: “Febbrarittu / scòrteca l’asinu e lu caprittu”; “Febbrarittu curtùcciu curtùcciu / se sse renvè, mese pegghjo non c’è”; “San Flavià (21 febb.), la né pe li pià”; “A Sanda Mattia (24 febb.), la né pe la via”.
***
LA POESIA
di Gian Mario Maulo
NEVE
nell’aria
il candido
profumo
di sospesa
immensità
che trepida
discende
ed esita
poi muore
un volo
breve
un seme
nella terra
IL RACCONTO
La neve… quando non c’era la protezione civile
di Gabor Bonifazi
Una delle cause che stanno alla base di tutti i mali che affliggono l’umanità è sicuramente la superiorità delle forze della natura rispetto a quelle dell’uomo.Basta infatti una nevicata per farci sentire impotenti e lamentosi per la paura, poi il pensiero corre al famoso nevone del 1929 che tanti maceratesi raccontarono di aver apocalitticamente vissuto. Erano altri tempi. Non esisteva la Protezione civile e la neve si riciclava in ghiaccio per essere immagazzinata in grossi contenitori ricavati al centro delle piazze principali di Macerata: piazza Mazzini (allora del Littorio), piazza della Libertà (allora Vittorio Emanuele) e piazza Vittorio Veneto, vulgo San Giovanni. Queste grotte scavate nelle viscere della terra, molto ben descritte dal Moretti nel romanzo «L’Andreana», erano chiamate neviere o conserve: ghiacciaie ante litteram che servivano a conservare i cibi fino al principio dell’estate.
A Cesenatico, lungo il porto canale, sulla facciata della casa di Marino Moretti, venne apposta una lapide con una epigrafe in memoria di questo straordinario luogo del lavoro: «… Un quartiere tutte ghiacciaie in forma di grotte scavate in profondo, cinte all’esterno di muri bassi e rotondi e coperti di tegoli […] Orizzontarsi in quella specie di “villaggio abissino”, come qualcuno le vedeva, mettere il piede ove non fosse fango, evitare i rivoletti d’acqua sudici sgorganti da ognuno di quegli usci, non era cosa agevole […] senza dire che la stessa natura del terreno doveva avere influito sull’immaginazione della gente da poco se un dislivello di due o tre metri faceva dare a quei luoghi assurdi il nome di “monti”. »
Quindi neve, nevone, inverno, freddo e tanti proverbi e modi di dire maceratesi, come: «Co’ ‘sto friddo te se pappa li carzolà». Un modo di dire misterioso a persona infreddolita, indirizzita e quindi rattrappita come un gatto e la tradizione vuole che i calzolai fossero gran pappatori del più comune animale domestico.
Si dice inoltre che il mese di gennaio fosse il periodo migliore per mangiare i gatti, anche perché venivano frollati nella neve. I più anziani mi raccontarono che specialista era un tale chiamato «Bistecca» che li cucinava per la delizia degli amici all’osteria di “Neno de Vernacchia” in via della Pescheria Vecchia (attuale ristorante da Secondo). Una trentina di anni fa c’era qualcuno che giurava che a Macerata ancora si usava mangiare il gatto… sarà stato vero? Lasciamo questo primato ai vicentini, a noi si addice meglio il blasone di “pistacoppi” e non di magnagatti.
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siamo freschi….niente male altri quarantanove cosi’….brrrrrrrrrrrrrrrr
Grande Gabor! Con le tue vecchie storie (vere), ci fai rivivere gli inverni di una volta. Un solo rammarico per quella beata gioventù che ci faceva affrontare l’inverno con gioia.
Ciao Mario e Gian Mario. Sarebbe interessante vedere se le vecchie tradizioni popolari ( quanto al clima ) ci “azzeccano” oppure no. E’ una mia curiosità, non ironia. Interessante, come sempre, il pezzo di Gabor. Stimolo CM ( ed anche Gabor se ha qualcosa in archivio) a tirar fuori qualche foto di Macerata con i vecchi nevoni. A parte quello del ’29, giustamente ritenuto “apocalittico”ne ricordo uno di metà anni ’50. Sarebbe suggestivo un repertorio “emotivo”, come indirettamente suggerisce Blanchi ( e forse romantico).
Caro Guido,
per quanto riguarda la neve ho poco o nulla. Della nevicata del 1956 dispongo nell’album di famiglia di alcune foto irrilevanti dove mio padre ha voluto immortalare il sottoscritto, sciatore per caso, con pantaloni alla zuava e sci; ho poi un video del 1985 e altre piccole immagini delle nevicate successive. Tuttavia ti segnalo un catalogo della mostra fotografica allestita dai filatelici nel 1980: MACERATA D’INVERNO (1929 – 1978 dalla raccolta Montanari Vincenzo) e il volume Obiettivo sul passato (foto archivio Balelli) La città, Federico Motta Editore SpA, Milano, 1998, pp. 94, 95.
Vi furono nevicate eccezionali nel 1929 quando in via Crescimbeni si camminò per mesi dentro una galleria di neve, nel 1956 quando si poteva sciare sullo “scarcalaccio” (= discarica a cielo aperto) in via della Pace e nel 1961 quando mio padre comprò pala e badile e, insieme agli altri abitanti del quartiere San Francesco, ci mettemmo a spalare la neve. Così come fu eccezionale anche la nevicata del 1985 quando i ragazzi lanciarono la moda dello “sci/monnezza”, scivolando dalle parti di Fonte Agliana su sacchetti della spazzatura.
Caro Gabor,
sempre freschi i tuoi racconti -questi poi!!!- Il tuo stile asciutto ed essenziale, lascia libera la fantasia di ricordare e rivivere. Hai ascoltato il silenzio della neve che, scendendo, diventa musica del tempo?
Sempre bravo!
sei sempre il migliore zio!!!
un abbraccio
silvia:)
@Gabor
Sicuramente, altro famoso personaggio che si dilettava a cucinare in varie cantine delle “Casette” i gatti è stato “Lu Cassà”. Famoso il piatto “Lu gattu alla cacciatora”, naturalmente senza testa per farlo sembrare un coniglio.
Attenzione, parliamo degli anni ’60.
Caro Sisetto,
mi riferivo proprio a quel signore. Azelio, la mia fonte, mi raccontò che Lu gattu alla cacciatora veniva servito su una bara.